Come remunerare l’attività del familiare nell’impresa?

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Come remunerare l’attività del familiare nell’impresa?

Collaborazione familiare e continuatività della prestazione

La disciplina della collaborazione familiare assume una connotazione multiforme a seconda della prospettiva lavoristica, previdenziale-assicurativa, fiscale e commerciale, in cui viene analizzato l’istituto.
Sotto il profilo civilistico, la disciplina del collaboratore familiare trova il proprio riferimento normativo nell’art. 230 bis c.c., il quale, ai fini del riconoscimento delle relative tutele, richiede che l’attività del predetto, ove non sia stato instaurato tra le parti un diverso rapporto di lavoro, sia prestata in modo continuativo.
L’attività svolta in modo occasionale da un familiare dell’imprenditore non appare sussumibile nella fattispecie della collaborazione familiare, essendo, invero, necessario che l’apporto reso dal predetto sia funzionale all’accrescimento della produttività dell’impresa (cfr. Cass. civ. Sez. Unite, 04/01/1995, n. 89). Tale funzionalità non potrebbe invocarsi a fronte di prestazioni rese in modo occasionale e quindi a titolo di affetto o benevolenza.
Pertanto, la continuatività della prestazione è requisito imprescindibile affinché il collaboratore possa esercitare i diritti di cui all’art. 230 bis c.c., tra i quali spicca il diritto agli utili e non ai compensi.
Per quanto riguarda, invece, il piano assicurativo, la disciplina di riferimento è contenuta nel T.U. n. 1124/65, il cui art. 23 prevede l’obbligo per l’impresa di denunciare preventivamente all’INAIL l’attività resa dai soggetti per i quali non si precede mediante il sistema C.O.. La previsione si riferisce ai soci e ai collaboratori e coadiuvanti familiari. Tuttavia affinché scatti il requisito della denuncia occorre che la prestazione del familiare venga resa nell’ambito delle attività di cui all’art. 1 del T.U. n. 1124 cit. e in modo non occasionale.
A tal riguardo il Ministero del Lavoro con nota 37/014184 / MA007.A001 del 05/08/2013 ha ritenuto di escludere il requisito della occasionalità della prestazione laddove il familiare presti la propria opera nell’impresa per “una\due volte nell’arco dello stesso mese a condizione che nell’anno le prestazioni complessivamente effettuate non siano superiori a 10 giornate lavorative”.
Stante la diversa finalità cui assolve il T.U. n. 1165 cit., rispetto all’art. 230 bis c.c., si può ritenere che il concetto di continuatività della prestazione per il familiare assuma un significato differente, a seconda del referente normativo entro cui sussumere la fattispecie concreta. In altri termini, se è vero che una prestazione resa per oltre 10 giornate l’anno, può dirsi non occasionale ai fini dell’obbligo della copertura assicurativa, non pare che il medesimo criterio possa essere applicato anche per il riconoscimento dei diritti di cui all’art. 230 bis c.c., rispetto ai quali il concetto di continuatività sembra richiedere il costante protrarsi nel tempo dell’attività lavorativa.

Collaboratore familiare e carattere abituale e prevalente della prestazione

Per quanto riguarda, invece il regime previdenziale, sempre il Ministero del Lavoro, con nota del 10/6/2013, prot. 37 / 0010478 / MA007.A001 del 10/06/2013, ha stabilito che il familiare debba essere soggetto a iscrizione INPS, qualora l’attività venga resa da costui nell’impresa in modo abituale e prevalente; concetti questi ultimi parametrati su un minimo di 720 ore all’anno solare (ergo 90 giorni), a prescindere della presenza del titolare nei locali dell’impresa familiare.
L’art. 2 comma 1 della L. n. 463/1959 ha esteso ai familiari coadiuvanti di imprese artigiane l’obbligo d’iscrizione all’assicurazione I.V.S., sempre però che i predetti lavorino abitualmente e prevalentemente nell’azienda, mentre analoga previsione è contenuta nell’art. 2 comma 1 della L. n. 613/66 e riguarda invece i familiari coadiutori degli esercenti delle piccole imprese commerciali (cfr. circolare INPS n. 179/89).

La collaborazione familiare nelle società: giurisprudenza e prassi amministrativa

Recentemente la Suprema Corte di Cassazione ha affermato l’incompatibilità tra forma societaria e impresa familiare ritenendo che l’attività prestata dal collaboratore familiare sia un istituto applicabile solo nell’ambito delle ditte individuali (Cass. civ. Sez. Unite, 06/11/2014, n. 23676).
Tale indirizzo contrasta con la prassi amministrativa tuttora favorevolmente orientata ad ammettere l’iscrizione del familiare come collaboratore del socio di società di persone (cfr. Ministero del lavoro risposta a interpello n. 78/09; INAIL nota n. 2653/10; INPS circolare 179/89).
Sebbene la prassi INPS sembri assentire all’iscrizione come coadiuvanti familiari che collaborino con il socio di società a responsabilità limitata, non pare però che tale fattispecie possa ritenersi normativamente giustificata. Invero nell’ambito delle società di capitali, tra le quali figurano le società a responsabilità limitata, quantunque unipersonali e/o artigiane, il rapporto di lavoro si instaura con la società, in quanto soggetto e personalità giuridica autonoma e distinta rispetto a quella dei soci e pertanto non pare esservi spazio per un rapporto collaborativo tra familiare e socio.
Per vero la prassi seguita dagli Istituti appare dettata da una finalità più che altro volta a evitare che i trattamenti e le prestazioni tipizzanti il lavoro subordinato possano essere applicati a coloro che, come i familiari dell’imprenditore, prestino nell’impresa un’attività che non sempre risulta svolta con i requisiti della dipendenza tecnico-funzionale.

Collaborazione familiare ed erogazione degli utili

Sia l’indirizzo seguito dalla giurisprudenza sia la prassi amministrativa sottendono una problematica legata alle modalità di remunerazione del familiare, specie qualora quest’ultimo richieda di essere pagato nel corso dell’attività e soprattutto prima del momento di verifica circa la realizzazione degli utili di impresa, che, come noto, avviene con la redazione del bilancio finale di esercizio.

Ditte individuali e prelievi anticipati sugli utili: ammissibilità?

Per quanto la ditta individuale, quale bene materiale, non sia un soggetto giuridico distinto dal titolare, ma si identifichi con quest’ultimo sotto l’aspetto sia sostanziale sia processuale, e sebbene il titolare risponda illimitatamente con il proprio patrimonio delle obbligazione assunte, il prelievo di somme, a titolo di acconto sugli utili, prima che venga verificata l’effettiva realizzazione degli stessi, non appare in linea con la disciplina civile e fiscale, quest’ultima contenuta prevalentemente nel d.P.R. 600/1973. Ciò in quanto anche per le ditte individuali, quantunque non si rinvenga una disposizione che vieti espressamente il prelievo anticipato di somme su futuri utili, la valutazione veritiera ed effettiva delle attività e delle passività e dei profitti e le perdite conseguite dall’impresa, non possono che emergere alla fine dell’esercizio e, quindi, in sede di redazione del bilancio.
Tuttavia una valutazione di segno opposto potrebbe affermarsi ove si valorizzi la previsione di cui all’art. 2262 c.c., che in materia di società semplici, stabilisce: “salvo patto contrario, ciascun socio ha diritto di percepire la sua parte di utili dopo l’approvazione del rendiconto”. In tali società la facoltà di erogare un acconto sugli utili è quindi ammessa, nella misura in cui i soci abbiano pattuito statutariamente in senso contrario. Infatti, in assenza di tale clausola derogatoria anche i soci di società semplice non possono distribuire utili prima dell’approvazione del rendiconto.
Se, pertanto, tale facoltà risulta esercitabile, previo accordo tra i soci, nelle società di persone, potrebbe ritenersi plausibile che analoga prerogativa venga riconosciuta anche ai titolari di ditta individuale, stante l’unicità del soggetto e l’assimilazione per costoro tra reddito di impresa e reddito personale. Non va però omesso di considerare che la previsione di deroga di cui all’art. 2262 c.c. si giustifica in relazione alla circostanza che le società semplici non possono esercitare attività commerciali e non sono neppure soggette a fallimento e, pertanto, un’estensione di tale facoltà anche agli imprenditori commerciali sembra contraddire lo spirito della norma.

Il prelievo anticipato sugli utili nelle società di persone

Per vero il problema di fondo è quello di verificare se l’art. 2262 c.c. possa essere applicato anche alle società in nome collettivo e alle società in accomandita semplice, che sono poi i tipi di società di persone, che, sul piano commerciale, ricorrono con maggiore frequenza.
Come noto la disciplina prevista per le società semplici è applicabile, per effetto dei rinvii inseriti negli articoli 2293 c.c. e 2315 c.c., rispettivamente, alle società in nome collettivo e alle società in accomandita semplice, a condizione però che per queste ultime società non siano previste disposizioni specifiche incompatibili con le regole generali disposte per le società semplici.

La tesi che esclude l’erogazione anticipata degli utili

L’articolo 2303 comma 1 c.c. prevede che “non può farsi luogo a ripartizione di somme tra soci se non per utili realmente conseguiti”. La previsione, che non permette ai soci di disporre diversamente, è applicabile anche alle società in accomandita semplice, stante la norme di rinvio testé richiamate. Ebbene, l’utile può qualificarsi come “realmente conseguito” solo in presenza di un rendiconto ovvero di un bilancio di esercizio, in cui figurano i profitti e/o le perdite della società. Ciò, in altre parole, significa che nelle società in nome collettivo e in quelle in accomandita semplice, prima di tale momento, l’erogazione di acconti sugli utili non rendicontati costituisce, secondo il tenore letterale della norma de qua, un’operazione sempre vietata.

L’indirizzo della giurisprudenza

La giurisprudenza prevalente tuttavia appare di diverso avviso, perché è orientata a estendere la previsione di cui all’art. 2262 c.c. anche alle società in nome collettivo e alle società in accomandita semplice. Invero, anche recentemente la S.C., nell’affermare che il diritto del socio a percepire gli utili è subordinato all’approvazione del rendiconto, ha motivato la propria decisione richiamando l’art. 2262 c.c., ritenuta previsione applicabile alle società in nome collettivo in forza del richiamo di cui all’art. 2293 c.c. (Cass. civ. Sez. I, 31/12/2013, n. 28806). Corollario di tale prospettiva è che i soci possono prelevare acconto sugli utili non rendicontati a condizione che lo statuto, in applicazione della clausola di deroga di cui all’art. 2262 c.c., preveda tale facoltà.
Tale prospettiva ha ovviamente ricadute anche sulla prassi amministrativa che ritiene ammissibile, nelle società di persone, l’instaurazione di un rapporto di collaborazione familiare tra il socio e il familiare di quest’ultimo, giacché in tal caso, come ben si comprende, i soci, ove si siano avvalsi della clausola di riserva di cui all’art. 2262 c.c., potrebbero erogare acconti sugli utili al familiare prima dell’approvazione del rendiconto finale.

Utili non rendicontati e prelevati: fattispecie di reato

Tuttavia è bene sottolineare che la scelta di erogare acconti su utili, ove ammessa, costituisce operazione comunque rischiosa, perché suscettiva di integrare la fattispecie di reato prevista dall’art. 2627 c.c., qualora la società, alla chiusura dell’esercizio, abbia realizzato perdite e non profitti. In tal caso gli amministratori potrebbero soggiacere alla sanzione dell’arresto fino ad un anno se abbiano ripartito “utili o acconti su utili non effettivamente conseguiti o destinati per legge a riserva”, ovvero abbiano ripartito “riserve, anche non costituite con utili, che non possono per legge essere distribuite”.
Nella premessa che la restituzione degli utili o la ricostituzione delle riserve prima del termine previsto per l’approvazione del bilancio costituisce, per espressa previsione dell’art. 2627 comma 2 c.c., causa estintiva del reato, si potrebbe persino ipotizzare che la distribuzione di utili non realmente conseguiti realizzi una distrazione del patrimonio sociale, idonea a integrare il reato di bancarotta, punito ai sensi degli artt. 216 e ss. del R.D. n. 267/42.
Tuttavia la giurisprudenza penale, nel caso della distribuzione anticipata di utili non maturati, ha escluso la sussistenza del reato di bancarotta, e non già di quello di cui all’art. 2627 c.c., sul presupposto per cui “[…] l’art. 2262 c.c. mira a garantire una parità di trattamento tra i soci, e non l’integrità del patrimonio sociale posto a garanzia dei creditori […]” (cfr. Cass. pen. Sez. V Sent., 13/05/2009, n. 38529, tuttavia per la configurazione del reato di bancarotta per utili in nero distribuiti cfr. Cass. pen. Sez. V, 18/02/2009, n. 17692). Di contrario avviso resta però la giurisprudenza civile, che recentemente ha rimarcato la circostanza per cui gli utili, “[…] prima dell’eventuale distribuzione in favore dei soci, fanno parte del patrimonio sociale ed appartengono, quindi, alla società […]” e che l’eventuale distribuzione anticipata degli stessi costituisce condotta lesiva del patrimonio medesimo (cfr. Cass. civ. Sez. III, 22/03/2011, n. 6558).

Conclusioni

Le complessive argomentazioni sopra enunciate dimostrano come l’esatto inquadramento del lavoro del familiare nell’impresa costituisca una operazione vischiosa, tutt’altro che semplice e che presenta profili di criticità e di rischiosità, specie in punto di modalità di remunerazione dell’attività.
Qualora la società o l’imprenditore volessero garantire al familiare una copertura previdenziale e assicurativa e, al contempo erogare a costui compensi in corso di esercizio, potrebbero scegliere di instaurare un rapporto di lavoro ordinario, se del caso differente rispetto a quello subordinato, optando, esemplificativamente, per il contratto di collaborazione coordinata e continuativa ex art. 409 c.p.c.. Una tale prospettiva, in primo luogo, sembra più aderente alla previsione di cui all’art. 230 bis c.c., che, come noto, ha un ambito di applicazione residuale e cioè è predicabile quando le parti non abbiano instaurato un diverso rapporto di lavoro. In secondo luogo, stante l’abrogazione del requisito del progetto, attuata con D.lgs. n. 81/15, il contratto di co.co.co., in concreta assenza di etero-direzione, ovvero di tutti i requisiti di cui all’art. 2 comma 1 del D.lgs. n. 81 cit., appare consono alla tipologia di lavoro ordinariamente svolta dai familiari, usualmente contrassegnata da promiscuità sociali e flessibilità organizzative, che mal si conciliano con la fattispecie di cui all’art. 2094 c.c..

Le considerazioni espresse sono frutto esclusivo del pensiero degli autori e non impegnano in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.
Ogni riferimento a fatti e/o persone è puramente casuale.

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