Insinuazione al passivo e sale and lease back: la cassazione fra Patto Commissorio e Patto Marciano

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Insinuazione al passivo e sale and lease back: la cassazione fra Patto Commissorio e Patto Marciano

La Corte di Cassazione[1] torna ad occuparsi del divieto del patto commissorio in relazione alla insinuazione allo stato passivo del fallimento del debitore da parte di una banca e nell’ambito di un’operazione di  leasing. In particolare la Suprema Corte era stata investita dell’impugnazione  avverso il  decreto del Tribunale di Perugia che aveva respinto l’opposizione allo stato passivo del Fallimento proposta dalla societa’ concedente, la quale lamentava, fra l’altro,  la mancata ammissione delle domande di pagamento dei canoni e restituzione di un immobile ad uso industriale, oggetto di un contratto <<sale and laese back>>[2].

Il Tribunale aveva  ritenuto fondata l’eccezione del fallimento circa la conclusione del contratto in violazione del divieto di patto commissorio, con conseguente nullita’ per frode alla legge, sia perche’, all’epoca della conclusione del contratto, la società poi fallita era insolvente sulla base degli indici finanziari risultanti dai bilanci, sia per la sproporzione tra il valore del bene e il prezzo (superiore al primo del 30%) e per l’utilizzazione del corrispettivo al fine di estinguere i debiti d’impresa sussistenti in buona parte verso lo stesso gruppo bancario cui la concedente apparteneva.

La banca denunciava  vizi di motivazione, sotto ogni profilo, da parte del Tribunale in ordine alle pretese anomalie del contratto di lease back immobiliare, da cui il giudice a quo aveva  dedotto l’assimilabilita’ ad un patto commissorio vietato, sostenendo che il sale and lease back e’ diffuso contratto d’impresa, socialmente tipico, nonche’ implicitamente riconosciuto nel nostro ordinamento all’articolo 2425 bis c.c..

La banca richiamava i noti princìpi della giurisprudenza di legittimità che, per distinguere il leasing puro da quello anomalo in quanto confliggente con il divieto di patto commissorio, aveva individuato tre essenziali criteri: l’esistenza di una situazione debitoria in capo all’impresa utilizzatrice verso la concedente, le difficolta’ economiche della prima e la sproporzione tra corrispettivo e valore del bene. Indici tutti mancanti nella vicenda  esaminata.

Il Tribunale aveva  rilevato che: a) sussisteva una situazione di insolvenza della societa’ utilizzatrice, in relazione a vari indici (dipendenza finanziaria, liquidita’, disponibilita’, indebitamento, redditivita’) basati sui bilanci societari; la nota integrativa riportava inadempimenti di debiti tributari e previdenziali; la relazione sulla gestione recava indebitamenti verso gli istituti di credito, mentre risultavano insoluti e sconfinamenti dall’estratto della centrale rischi; b) il valore dell’immobile era indicato, in una perizia della curatela, in euro 4,65 mil., quindi oltre il 30% superiore al prezzo pagato; c) il corrispettivo della vendita era stato utilizzato per estinguere il contratto con altra banca, per pagare la prima rata del leasing, per ripianare i debiti presso altro istituto di credito, appartenente allo stesso gruppo bancario della concedente, ed in parte per costituire un deposito a risparmio nominativo: in sostanza, “per finalita’ estranee all’attivita’ imprenditoriale e comunque, per buona parte, confluite nuovamente alla societa’ acquirente o ad altre del medesimo gruppo bancario, nei confronti del quale la società poi fallita risultava esposta.

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha premesso di aver   da tempo chiarito che lo schema socialmente tipico del lease back presenta autonomia strutturale e funzionale, quale contratto di impresa, e caratteri peculiari di natura oggettiva e soggettiva che non consentono di ritenere che esso integri, per sua natura e nel suo fisiologico operare, una fattispecie che, in quanto realizzi un’ alienazione a scopo di garanzia, si risolva in un negozio atipico nullo per illiceita’ della causa concreta[3].

Peraltro, la causa concreta del contratto di sale and lease back, secondo il giudice di legittimità, ben puo’ essere piegata al fine illecito vietato dall’articolo 2744 c.c., il quale costituisce una norma materiale, destinata a trovare applicazione non soltanto in relazione alle alienazioni a scopo di garanzia sospensivamente condizionate all’inadempimento del debitore, ma anche a quelle immediatamente traslative e risolutivamente condizionate all’adempimento del debitore[4], esprimendo essa un divieto di risultato.

Dunque,  la verifica se lo schema negoziale del lease back sia stato in concreto impiegato per eludere il divieto di patto commissorio va operata dal giudice del merito in base ad elementi sintomatici sia soggettivi che oggettivi, i quali non sono sindacabili in sede di legittimita’, se non nell’ambito del controllo sulla motivazione[5].

L’effetto di piegare un negozio lecito al raggiungimento di un risultato contrario alla norma imperativa dipende, pertanto, dalle circostanze del caso concreto e dalle clausole negoziali presenti nell’accordo, fondandosi su tali elementi di fatto la corretta qualificazione della fattispecie. Occorrera’ la ravvisabilita’ di un nesso funzionale, che renda manifesto l’intento negoziale complessivo delle parti; ma l’individuazione della causa concreta del negozio, ai fini della valutazione della sua liceita’ alla luce del complessivo regolamento d’interessi perseguito, appartiene alla sfera di competenze riservate al giudice del merito.

Nela controversia esaminata dalla S.C. la banca ricorrente faceva soprattutto leva  sulla presenza nel contratto di una c.d. clausola marciana[6], la quale prevedeva che, in caso di risoluzione per inadempimento,  il concedente avrebbe potuto pretendere che l’utilizzatore pagasse  i canoni scaduti, gli interessi moratori, le spese ed un importo pari all’ammontare dei canoni non scaduti, conseguendo il tutto in seguito alla vendita del bene da parte del concedente medesimo. Nell’assunto della ricorrente, tale clausola escludeva il carattere fraudolento e vietato del lease back.

<<Il  patto marciano – clausola contrattuale con la quale si mira ad impedire che il concedente, in caso di inadempimento, si appropri di un valore superiore all’ammontare del suo credito, pattuendosi che, al termine del rapporto, si proceda alla stima del bene e il creditore sia tenuto al pagamento in favore del venditore dell’importo eccedente l’entita’ del credito (iure emptoris possideat rem iusto pretio tunc aestimandam, secondo la tradizione giustinianea) esclude l’illiceita’ della causa del negozio, la quale non sussiste “pur in presenza di costituzione di garanzie che presuppongano un trasferimento di proprieta’, qualora queste risultino integrate entro schemi negoziali che tale abuso escludono in radice, come nel caso del pegno irregolare, del riporto finanziario e del c.d. patto marciano – in virtu’ del quale, come e’ noto, al termine del rapporto si procede alla stima, ed il creditore, per acquisire il bene, e’ tenuto al pagamento dell’importo eccedente l’entita’ del credito>>[7].

Piu’ di recente, il medesimo concetto e’ stato di nuovo espresso, sebbene ancora in via incidentale, escludendosi la violazione dell’articolo 2744 c.c. in presenza di un patto marciano “in virtu’ del quale al termine del rapporto si procede alla stima ed il creditore, per acquisire il bene, e’ tenuto al pagamento dell’importo eccedente l’entita’ del credito”[8].

Si ritiene, dunque, che il c.d. patto marciano sia strumento idoneo a scongiurare l’illiceita’, permettendo l’uso di un contratto finanziario, come il lease back, ritenuto vantaggioso dagli utilizzatori: si riconosce cosi’ la “ragionevolezza commerciale” dell’intera operazione per entrambe le parti, rispondendo essa alle peculiari “esigenze del mercato” che esige, in dati casi, l’anticipata monetizzazione del valore del bene in favore dell’utilizzatore-venditore, senza che egli pero’ ne perda il godimento o se ne privi definitivamente.

La cautela marciana riesce a superare i profili di possibile illiceita’ del lease back, in quanto prevede, al termine del rapporto, la stima del bene oggetto di garanzia quale presupposto del consolidarsi dell’effetto traslativo iniziale, evenienza che si verifichera’ qualora il valore del bene sia equiparabile all’importo del credito inadempiuto (nonche’ del danno da inadempimento); mentre, ove tale importo sara’ inferiore, verra’ quantificata la differenza e sara’ pagato un prezzo aggiuntivo al debitore, quale condizione del consolidamento dell’effetto traslativo. Cio’ garantirebbe contro il pericolo che il debitore subisca una lesione in conseguenza del trasferimento con funzione di garanzia: la stima imparziale del valore del bene ad opera di un terzo e l’obbligo, da parte del creditore, di restituire l’eccedenza al debitore assumono, quindi, il compito di escludere l’abuso, e con esso l’operativita’ del divieto di patto commissorio e la conseguente illiceita’.

Facendo leva su questi princìpi la Cassazione esamina l’opposizione allo stato passivo operata dalla società di leasing.

Secondo la S.C., infatti,  fondamento dell’effetto salvifico è, da un lato, l’idoneita’ della clausola a ristabilire l’equilibrio sinallagmatico tra le prestazioni del contratto di lease back (requisito svalutato da chi reputa che l’articolo 2744 c.c. non esiga alcuna sproporzione dei valori, ma dovendosi invece ribadire che l’ordinamento presume detta sproporzione nel meccanismo vietato), e, dall’altro lato, la sua capacita’ di scongiurare che l’attuazione coattiva del credito avvenga senza alcun controllo dei valori patrimoniali in gioco.

La giurisprudenza individua tutta una serie di ipotesi previste dal codice civile in cui tale controllo viene espressamente previsto.

Per l’articolo 1851 c.c., in presenza di un pegno irregolare a garanzia, “la banca deve restituire solo la somma o la parte delle merci o dei titoli che eccedono l’ammontare dei crediti garantiti”; nella cessione dei beni ai creditori, l’articolo 1982 c.c. attribuisce il residuo al debitore; quanto alle garanzie reali tipiche, ad esempio, l’articolo 2798 c.c. ammette l’assegnazione al creditore della cosa oggetto del pegno solo previa “stima da farsi con perizia o secondo il prezzo corrente, se la cosa ha un prezzo di mercato”, l’articolo 2803 c.c. prevede la riscossione del credito dato in pegno, ma, se il credito garantito e’ scaduto, “il creditore puo’ ritenere del denaro ricevuto quanto basta per il soddisfacimento delle sue ragioni e restituire il residuo al costituente o, se si tratta di cose diverse dal danaro, puo’ farle vendere o chiederne l’assegnazione” secondo la norma ora citata e l’articolo 2804 c.c. sancisce che il creditore pignoratizio non soddisfatto puo’ in ogni caso chiedere che gli sia assegnato in pagamento il credito ricevuto in pegno “fino a concorrenza del suo credito”;

 

E’ necessario allora che, sin dalla conclusione del contratto di lease back, siano stati previsti meccanismi oggettivi e procedimentalizzati che permettano la verifica di congruenza tra valore del bene oggetto della garanzia, che viene definitivamente acquisito al creditore, ed entita’ del credito.

In conclusione la Corte di Cassazione, riformando il decreto del Tribunale di Perugia[9], ed accogliendo l’opposizione allo stato passivo del Fallimento,  ha enunciato il seguente principio:<< perche’ la c.d. clausola marciana possa conseguire l’effetto  legalizzante del contratto di lease back, occorre che essa preveda, per il caso ed al momento dell’inadempimento,  ossia quando si attuera’ coattivamente la pretesa creditori, un procedimento volto alla stima del bene, entro tempi certi e con modalita’ definite, che assicurino la presenza di una valutazione imparziale, in quanto ancorata a parametri oggettivi automatici, oppure affidata a persona indipendente ed esperta la quale a detti parametri fara’ riferimento al fine della corretta determinazione dell’an e del quantum della eventuale differenza da corrispondere all’utilizzatore. La pratica degli affari potra’ poi prevedere diverse modalita’ concrete di stima, purche’ siano rispettati detti requisiti. L’essenziale e’ che risulti, dalla struttura del patto, che le parti abbiano in anticipo previsto che, nella sostanza dell’operazione economica, il debitore perdera’ eventualmente la proprieta’ del suo bene per un prezzo giusto, determinato al tempo dell’inadempimento, perche’ il surplus gli sara’ senz’altro restituito>>.

Non e’ invece necessario, secondo la Corte,  che la clausola marciana subordini, altresi’, alla condizione del pagamento della differenza l’acquisizione del bene da parte del creditore: invero, cosi’ come per il divieto ex articolo 2744 c.c., anche la clausola marciana puo’ essere in concreto articolata non solo nel senso di ancorare all’inadempimento il trasferimento della proprieta’ del bene, ma pure il consolidamento dell’effetto traslativo gia’ realizzato, che si verifichera’ solo ove sia corrisposta l’eventuale differenza.

 


[1] Cass., sezione I, 28/1/’15 n. 1625

[2] Si tratta di un'operazione finanziaria tramite la quale una parte cede un bene (per lo più immobile) in proprietà a una società finanziaria (impresa di leasing) da cui ottiene poi il godimento del bene stesso in leasing e la possibilità di riscattare il bene in questione ad una specifica data futura.La funzione del contratto è essenzialmente quella di finanziamento ed, in correlazione ad essa, per lungo tempo si è dubitato della sua compatibilità con il divieto del patto commissorio.

[3] Cass. 22 marzo 2007, n. 6969; 14 marzo 2006, n. 5438, ed altre

[4] Cass., sez. un., 3 aprile 1989, n. 1611, e successive, quale, fra le altre, 16 ottobre 1995, n. 10805, 19 luglio 1997, n. 6663 e 2 febbraio 2006, n. 2285

[5] Cass. 26 giugno 2001, n. 874; 19 luglio 1997, n. 6663

[6] “patto con cui il creditore diventa proprietario della cosa ricevuta in garanzia quando il debitore non adempie, ma con l’obbligo di far stimare la cosa da parte di un terzo successivamente all’inadempimento”

[7] Cass. 21 gennaio 2005, n. 1273

[8] Cass. 9 maggio 2013, n. 10986

[9] Il decreto impugnato conteneva una motivazione meramente apparente circa gli effetti della clausola apposta al contratto, limitandosi a reputare come “marginale” il rilievo del patto in questione, senza tuttavia ne’ verificarne il contenuto, ne’ accertarne l’avvenuta operativita’, ne’ chiarire l’effettivo peso attribuito dal giudicante al patto nella complessiva economia del contratto

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