Lavoro nero: non si applica la disciplina più favorevole

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Lavoro nero: non si applica la disciplina più favorevole

Con sentenza n. 193 del 20 luglio 2016 la Corte Costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell’art. 1 della L. n. 689/81, che non prevede l’applicazione all’autore dell’illecito amministrativo della legge successiva più favorevole.
Occorre premettere che l’incidente di costituzionalità è stato sollevato dal Tribunale di Como, con ordinanza emessa il 27 marzo 2015, perché chiamato a decidere in ordine all’opposizione, proposta ai sensi dell’art. 22 della L. n. 689 cit., avverso l’ordinanza-ingiunzione con cui la DTL di Como ha irrogato nei confronti delle parti opponenti la cosiddetta maxi-sanzione per il lavoro nero prevista dall’art. 3 comma 3 del D.L. n. 12/02, conv., con mod. dalla L. n. 73/02.

Quest’ultima disciplina è stata oggetto, nel corso degli anni, di ripetuti interventi di modifica che hanno riguardato sia gli importi sanzionatori, sia le tecniche procedurali di accertamenti dell’illecito e di irrogazione delle sanzioni; il trattamento sanzionatorio previsto al momento della commissione del fatto, sui cui il giudice a quo è stato chiamato a decidere, risultava più severo rispetto a quello successivamente contemplato dall’art. 4 comma 1 lett. a) della L. 183/10. Tuttavia secondo il Giudice remittente, la possibilità di applicare all’autore dell’illecito la lex mitior risulterebbe preclusa nel sistema della L. n. 689 cit., in cui l’irrogazione delle sanzioni soggiace al principio tempus regit actum. Da qui l’incidente di costituzionalità dell’art. 1 della L. n. 689 cit..
Vale ancora aggiungere che la tematica della retroattività della legge più favorevole nel sistema di cui alla L. n. 689 cit. è stata portata recentemente all’attenzione del Giudice delle Leggi anche dal Tribunale di Cassino, il quale, nell’occasione, ha sollevato l’incidente di costituzionalità su una fattispecie sanzionatoria diversa dalla maxi-sanzione per lavoro nero. Tuttavia le argomentazioni spese dal Tribunale di Cassino ricalcano sostanzialmente quelle prospettate dal Tribunale di Como con ordinanza del 27 marzo 2015. E poiché la Corte, con sentenza n. 193 cit. qui in commento, ha ritenuto non fondate le censure proposte dal Tribunale di Como, è ormai certo che anche la questione sollevata dal Tribunale di Cassino avrà un epilogo non differente.
Ma vediamo in dettaglio il contenuto delle censure promosse dal Tribunale lombardo e il giudizio formulato in merito dalla Corte Costituzionale.
L’ordinanza di remissione ruota intorno a due punti cardine:

  1. l’applicazione alle sanzioni amministrative dei principi validi per le sanzioni penali e quindi anche della regola che prevede per l’autore dell’illecito di beneficiare del trattamento sanzionatorio più mite, sopravvenuto rispetto a quello vigente al momento della commissione del fatto. Tale prospettazione si giustificherebbe sul presupposto che nel sistema della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), le cui previsioni permeano ai sensi dell’art. 117 Cost. l’ordinamento interno, non vi sarebbe una distinzione ontologica tra sanzione penale e sanzione amministrativa, con la conseguenza che anche quest’ultima dovrebbero sottostare al principio della lex mitior di cui all’art. 7 della CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo nelle sentenze 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, e 24 gennaio 2012, Mihai Toma contro Romania.
  2. L’equiparazione, secondo canoni di ragionevolezza e uguaglianza, del sistema di cui alla L. n. 689 cit. ad altre discipline settoriali, che in materia di illeciti amministrativi prevedono l’applicazione retroattiva a carico dell’autore dell’illecito del trattamento sanzionatorio meno severo (es. art. 3 del D.lgs. n. 472/97 – Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie).

Entrambe le censure sono state disattese nel merito dal Giudice delle Leggi.

Con riferimento alla prima censura, la Corte ritiene che i principi forniti dalla Corte di Strasburgo nelle sentenze del 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, e del 24 gennaio 2012, Mihai Toma contro Romania, assumano nell’ordinamento un valore non assoluto ma relativo, perché correttamente debbono essere interpretati e bilanciati con altri valori costituzionali. Inoltre la Corte Costituzionale soggiunge che le citate sentenze rese dalla CEDU non hanno interessato trasversalmente il complessivo sistema delle sanzioni amministrative, ma abbiano riguardato piuttosto specifiche e settoriali discipline sanzionatorie, con la conseguenza che non sarebbe possibile desumere da tali pronunce una regola che possa essere applicata in maniera indifferenziata a tutte le materie dell’ordinamento.

Per quanto riguarda la seconda censura, la Corte osserva che l’applicazione del trattamento più favorevole, nel sistema delle sanzioni amministrative, costituisce questione non coperta da vincolo di costituzionalità e, conseguentemente, la scelta di stabilire se in una determinata materia debba essere governata dal principio della lex mitior spetta alla discrezionalità del Legislatore, tenuto nel caso al rispetto dei canoni di ragionevolezza. Secondo la Corte una diversa disciplina sulla lex mitior sarebbe ragionevole, perché risponde all’idea di contestualizzare l’illecito e la relativa risposta sanzionatoria a una data materia e in un preciso momento temporale, onde evitare che l’autore della violazione possa per il futuro confidare in modifiche legislative che prevedano trattamenti più favorevoli.

Sugli assunti della Corte, senz’altro autorevoli, pare possibile esprimere alcune riserve.

Per quanto concerne la portata delle pronunce della CEDU è senz’altro vero che il significato delle decisioni, di qualunque decisione giurisprudenziale, è legato alla specificità del caso trattato e che l’enunciato di massima vada sempre commisurato in relazione ad altri valori di rango quantomeno equivalente a quello esaminato. Tuttavia, pare che si possa affermare anche che la casistica sottende pur sempre elementi indiziari funzionali a ricostruire, in chiave unitaria, il sistema ordinamentale. In tale prospettiva, pare non del tutto condivisibile la visione che vorrebbe disconoscere valore sistemico, e quindi con una diffusa capacità effettuale, alla garanzia della retroattività della legge successiva favorevole, quando, come affermato nella stessa sentenza n. 193 cit., tale garanzia tende ormai e sempre più ad assumere il significato di “valore generale e di principio”. D’altronde, nel momento in cui, nel sistema CEDU, venga assunta una connotazione ontologicamente unitaria della sanzione, quest’ultima, indipendentemente dalla circostanza se nell’ordinamento venga qualificata in senso amministrativo o penale, dovrebbe sottostare quantomeno a medesimi principii.

Anche rispetto al canone della ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. non appare revocabile in dubbio che la scelta di reprimere o meno una determinata condotta, ed eventualmente di stabilire l’entità della sanzione, sia appannaggio del Legislatore. Tuttavia tale scelta positivizza interessi che sono già emersi sul piano sociale. E nel momento in cui il Legislatore decide di modificare, in senso più mite, l’entità delle sanzioni, evidentemente, alla base, è stata avvertita l’esigenza di contrastare l’illecito con una risposta sanzionatoria meno aggressiva, perché magari, in un determinato contesto storico-ambientale, tale metodologia appare più adeguata a reprimere certe tipologie di condotte. In tale caso, fermo comunque il divieto di retroattività di sanzioni più severe, continuare ad applicare all’illecito la pregressa disciplina potrebbe generare, nel comune sentire, un senso di ingiustizia per una condotta il cui disvalore viene avvertito con un diverso significato rispetto al passato. Ciò, in altre parole, rischia di creare una divaricazione tra le istituzioni e l’opinione comune. E si noti che tale rischio è concreto anche laddove la risposta sanzionatoria dell’ordinamento all’illecito commesso abbia natura pecuniaria, giacché, in tale caso, l’opinione comune non coglie la reclamata specificità addotta dalla Corte, ma percepisce, piuttosto, la pretesa erariale in senso univoco, e cioè come reazione dello Stato unitariamente inteso a una condotta tenuta dall’autore in danno alla collettività. Da qui l’esigenza di favorire una produzione normativa che risponda al convincimento diffuso, onde garantire un’aderenza tra Stato e collettività.

Le considerazioni espresse sono frutto esclusivo del pensiero degli autori e non impegnano in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.
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