Licenziamento per superamento del periodo di comporto per sommatoria

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Caio è dipendente dell’impresa Alfa e da oltre tre anni è affetto da malattia non contratta per causa di servizio, che lo costringe ad assentarsi dal posto di lavoro in maniera parcellizzata. L’impresa Alfa comincia a valutare l’opportunità di risolvere il rapporto di lavoro con Caio per superamento del periodo di comporto e sottopone le proprie valutazioni al consulente del lavoro di fiducia. Quest’ultimo fa presente all’Impresa Alfa che il contratto collettivo applicato in azienda disciplina il comporto secco ma non quello frazionato e che un’eventuale licenziamento andrebbe valutato con attenzione tenendo in considerazione criteri equitativi per il calcolo del comporto frazionato. È corretta la tesi del consulente di Alfa?



Premessa

Il comporto trova fonte principale di disciplina nell’art. 2110 c.c. e, soprattutto, nei contratti collettivi, che prevedono segnatamente la durata e i criteri di calcolo del periodo relativo. Come accennato nel caso pratico de "L'Ispezione del Lavoro", del 26 agosto 2013, "La compilazione del LUL in caso di richiesta di ferie da parte del lavoratore malato", il comporto può essere di due tipi:

  1. comporto secco che ricorre quando la contrattazione collettiva si limita a prevedere il periodo di comporto soltanto con riferimento a un unico evento morboso;

  2. comporto per sommatoria allorché la contrattazione collettiva prevede un ampio arco temporale entro il quale non possono essere superati i periodi massimi complessivi di conservazione del posto di lavoro.

Se è vero che la maggior parte dei contratti collettivi prevedono entrambe le tipologie di comporto, può tuttavia verificarsi l’ipotesi in cui la disciplina collettiva concentri la propria attenzione al comporto secco omettendo conseguentemente di regolamentare il comporto per sommatoria. In tale evenienza si pone il problema di determinare l’arco temporale massimo entro cui la molteplicità di episodi morbosi non comporti per il lavoratore la perdita del posto di lavoro. In ogni caso e in via propedeutica per comprendere se il contratto collettivo disciplini una o entrambe le tipologie di comporto, nonché per cogliere il portato dei criteri di computo dei periodi temporali, si rende opportuna una breve premessa sui criteri di interpretazione delle disposizioni contenute nel contratto collettivo.

Le regole di interpretazione del contratto collettivo


Vale osservare anzitutto che l’interpretazione di una clausola di un contatto collettivo di diritto comune non può operarsi in maniera parziale e cioè tralasciando l’esame delle altre clausole. Le disposizioni contrattuali infatti vanno lette non solo in termini letterali, ma anche e soprattutto in via sistematica: “Le une per mezzo delle altre”, dal momento che le stesse integrano e si completano vicendevolmente. Tale criterio esegetico d’altronde risponde all’esigenza della contrattazione collettiva, che è volta ad apprestare una normativa esaustiva alla realtà lavorativa del settore. Detto in altri termini la regola dell’interpretazione letterale costituisce senz’altro il principale punto di partenza dell’ermeneutica contrattuale, la quale tuttavia deve svolgersi applicando anche il criterio logico-sistematico previsto dall’art. 1363 c.c., con il quale si viene ad individuare la vera volontà delle parti sociali.

Tale prospettazione è stata recentemente ribadita dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale ha osservato che “[…] la volontà comune delle parti non sempre è agevolmente ricostruibile attraverso il mero riferimento al significato letterale delle parole, tenuto conto anche del carattere vincolante che non di rado hanno all’interno dell’azienda l’uso e la prassi, assumendo invece un rilievo preminente il criterio dettato dall’art. 1363 c.c., dell’interpretazione complessiva delle clausole nonché l’utilizzazione dei generali criteri ermeneutici che di detta specificità tenga conto”.

L’indirizzo de quo è stato rimarcato dai giudici di legittimità in numerose pronunzie nella quali si legge che “[…] sebbene la ricerca della comune intenzione delle parti debba essere operata innanzitutto sulla base del criterio della interpretazione letterale delle clausole, ha valore preminente il criterio logico-sistematico di cui all’art. 1363 cod. civ., che impone di leggere la volontà dei contraenti come manifestata nella globalità delle clausole susseguitesi nel tempo ed aventi immediata attinenza alla materia in contesa”.

L’equità integrativa


Nell’esegesi delle disposizioni contrattuali va comunque messa in conto l’eventualità di un vuoto contrattuale o, se si preferisce, di un’ipotesi in cui manchi la regola negoziale da applicare al caso concreto o ancora che tale regola non emerga dalla volontà delle parti ricostruita mediante l’applicazione dei criteri testé esposti
.

Solo in siffatta eventualità è ammessa da parte dell’interprete la possibilità di ricorrere all’equità integrativa
. Infatti ove si consentisse all’interprete di applicare il criteri equitativo anche nel caso in cui la regola negoziale fosse ricavabile mediante l’applicazione degli ordinari criteri esegetici, si sottrarrebbe di fatto alle parti sociali una materia che è istituzionalmente devoluta alla loro competenza. Le parti sociali infatti appaiono più idonee e qualificate a trovare il giusto equilibrio tra le contrapposte esigenze del datore di lavoro e del lavoratore; equilibrio che viene poi cristallizzato nella regola contrattuale.

Il doppio termine di comporto


Il riferimento all’equità è essenziale per l’analisi delle disposizioni contrattuali dedicate al comporto. Infatti nell’ipotesi in cui le parti sociali abbiano regolamentato il comporto secco, ma non quello frazionato o per sommatoria e al tempo stesso non vi siano clausole chiare che permettano di desumere la disciplina relativa o usi utilmente richiamabili allo scopo, si ritiene che spetti all’interprete, e in sede giurisdizionale al Giudice, il compito di determinare, equitativamente, l’arco temporale di riferimento per il computo delle assenze.

A tal fine mediante il criterio equitativo viene individuato un doppio termine:

  1. un termine “interno” corrispondente solitamente alla durata stabilita dal contratto per il comporto secco;

  2. un termine “esterno” costituito dall’arco di tempo entro il quale i singoli episodi morbosi devono essere considerati unitariamente e che viene determinato solitamente in tre anni, pari all’ambito di vigenza del CCNL applicabile in concreto

Ebbene, secondo l’equità applicata in sede giurisdizionale il termine “interno” è un parametro per ricondurre a unità i singoli episodi morbosi. Diversamente il termine “esterno” costituisce un criterio di delimitazione temporale della malattia unitariamente considerata. Per quanto riguarda poi il computo delle assenze, la giurisprudenza ha stabilito che il periodo esterno di comporto possa computarsi indifferentemente o dalla data del primo episodio morboso o, a ritroso, dalla data dell’intimato licenziamento.

In sostanza il comporto può ritenersi superato quando nel periodo di durata del contratto collettivo il lavoratore abbia accumulato plurime assenze per malattia per un periodo di tempo superiore al comporto secco previsto dal contratto.

Il caso concreto


Venendo ora al caso in esame risulta nei fatti che Caio è dipendente dell’impresa Alfa e da oltre tre anni è affetto da malattia non contratta per causa di servizio, che lo costringe ad assentarsi dal posto di lavoro in maniera parcellizzata. A fronte di tali assenze l’impresa Alfa ha cominciato a valutare l’opportunità di risolvere il rapporto di lavoro con Caio per superamento del periodo di comporto e così ha sottoposto le proprie valutazioni al consulente del lavoro di fiducia. Quest’ultimo ha rappresentato all’Impresa Alfa che il contratto collettivo applicato in azienda disciplina il comporto secco, ma non quello frazionato e che un’eventuale licenziamento andrebbe valutato con attenzione tenendo in considerazione criteri equitativi per il calcolo del comporto frazionato. Ebbene la prospettazione del consulente di Alfa si apprezza per moderatezza e per acume. Per comprendere se effettivamente le valutazioni di Alfa siano corrette occorrerebbe anzitutto sincerarsi che dal contratto collettivo non siano ricavabili neppure in via interpretativa regole direttamente applicabili al comporto frazionato. In mancanza di disciplina occorrerebbe sommare i giorni di assenza di Caio e verificare se tale periodo di malattia superi o meno la durata prevista dal contratto per il comporto secco. Nell’eventualità occorrerà valutare se il periodo di assenza di Caio unitariamente inteso possa o meno essere collocato temporalmente nell’arco di vigenza del contratto. In caso di risposta affermativa a ciascuno dei tre passaggi si ritiene che l’impresa Alfa abbia facoltà di intimare il licenziamento di Caio per superamento del periodo di comporto. Ovviamente resta salva la facoltà di Caio di evitare il licenziamento fruendo in extremis delle ferie o dell’aspettativa.


NOTE

i Cass. civ. Sez. lavoro, 23/05/2013, n. 12728.

ii Cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 22-06-2006, n. 14461; ex multis Cass. civ. Sez. lavoro, 14-06-2006, n. 13730.

iii Trib. Napoli Sez. lavoro, 04/02/2006; Trib. Oristano, 03/02/1998.

iv Cass. civ. Sez. lavoro, 02/05/2000, n. 5485; Trib. Bergamo, 13/09/1996.

v Cass. civ. Sez. lavoro, 01/02/1999, n. 843. Sempre la Suprema Corte ha osservato che “nel caso di assenza del lavoratore a seguito di ricaduta nella stessa o in diversa malattia (come nell’analogo caso di assenza dovuta ad una malattia unica) al fine di verificare se sia stato superato o meno il periodo di comporto contrattuale, la regola, costituente principio generale, ma non avente carattere inderogabile, per cui un termine fissato a mesi (tanto quello interno, corrispondente alla somma delle assenze, quanto quello esterno, costituito dall’arco di tempo entro il quale i singoli episodi morbosi devono rientrare senza pregiudizio per la conservazione del posto di lavoro) deve essere computato secondo il calendario comune (art. 2963, comma 1, del codice civile e art. 155, comma 2, del codice di procedura civile) trova applicazione solo quando non sussistano clausole contrattuali di diverso contenuto che assumano una durata convenzionale fissa costituita da un predeterminato numero di giorni (nella specie trenta), astrattamente basato sulla durata media del mesecfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 02/04/2004, n. 6554.

vi Cass. civ. Sez. lavoro, 16/11/2001, n. 14337.

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