L’impiegato delle poste sottrae denaro ai risparmiatori. Non è peculato

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Non può rispondere di peculato - bensì di appropriazione indebita - il direttore dell’ufficio postale che, nello svolgimento di attività “bancoposta”, si impossessa del denaro depositato dai risparmiatori, in quanto non riveste, in tale ambito, la qualifica di pubblico ufficiale.

E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione, sesta sezione penale, con sentenza n. 10124 depositata il 10 marzo 2015, accogliendo il ricorso di un impiegato delle poste, condannato per peculato, per aver sottratto del denaro dai libretti postali dei risparmiatori.

Il ricorrente, in particolare, non contestava tanto i fatti addebitatigli, quanto piuttosto la qualifica degli stessi – ad opera della Corte territoriale - nella fattispecie di “peculato”, e non in quella di “appropriazione indebita”.

La Cassazione, condividendo le censure sollevate, ha innanzitutto precisato che l’attività di “bancoposta” svolta dall’imputato – e nell’ambito della quale ha posto in essere le condotte criminose - è a tutti gli effetti assimilabile alla comune attività bancaria (e come tale, allo stesso modo disciplinata); attività al momento del tutto privatizzata.

Manca dunque, nel caso di specie, il presupposto oggettivo perché sia integrato il reato di peculato, ovvero la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, in capo all’imputato, che qui svolge un’attività privatistica (a prescindere dalla natura pubblica o privata dell’ente in cui è impiegato).

Ha dunque conclusivamente enunciato la Corte – muovendo dal caso in esame – il principio generale secondo cui, nell’ambito dello svolgimento di funzioni di tipo bancario, qual è la raccolta di risparmio, l’attività svolta dall’ente Poste è di tipo privatistico, non diversamente da quella svolta dalle banche.

Ne consegue che l’appropriazione di somme dei risparmiatori con abuso del ruolo, integra il reato di appropriazione indebita e non quello di peculato.
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