L’ambiguità del dubbio

Pubblicato il 09 marzo 2006

In vigore da oggi la legge 46/06 che vieta l’appello per le pronunce di scioglimento al pubblico ministero contro le sentenze di assoluzione. In altre parole, da oggi, in Italia funzionerà, più o meno, come nei paesi anglosassoni: i giudici potranno condannare solo se l’imputato risulta colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio”. La legge, che con l’articolo 5 riscrive l’articolo 533 del Codice di procedura penale, apre tutta una serie di dubbi su come effettivamente si debba agire: la decisione va sempre presa all’unanimità? Cosa fare nel caso di una condanna decisa a maggioranza, con lo scarto di pochi voti, o addirittura di un solo voto?

Al di la di questi interrogativi, le novità introdotte dalla “legge Pecorella” riguardano due fattispecie:

 

- nel caso dei ricorsi pendenti in Cassazione, la facoltà, entro trenta giorni, di integrare i nuovi motivi introdotti dalla legge su prove e attuazione;

 

- nel caso di appello proposto dall’imputato o dal pubblico ministero contro il proscioglimento, la facoltà che questo venga dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile, mentre l’impugnante avrà tempo quarantacinque giorni dalla notifica dell’ordinanza d’inammissibilità per presentare ricorso contro la sentenza in Cassazione.

 

L’altra novità di rilievo tra i motivi di ricorso è poi quella della mancata assunzione di una prova decisiva anche nella fase dell’istruttoria dibattimentale. Infine, va segnalato un’ulteriore aspetto della legge, quello che impone all’accusa di archiviare quando si è pronunciata sull’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza necessari per l’applicazione di una misura cautelare e non sono stati acquisiti successivamente nuovi elementi a carico dell’indagato. 

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