Si può rifiutare la prestazione in caso di trasferimento contra legem?

Pubblicato il 17 maggio 2018

Una lavoratrice trasferita da Roma a Torino è stata licenziata per essersi rifiutata di prestare servizio nella nuova sede assegnatale ed ha impugnato il licenziamento.

La suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 11408 dell’11 maggio 2018, ha specificato che nel caso di specie occorre partire dalla configurazione del rapporto di lavoro subordinato quale rapporto a prestazioni corrispettive, connotato dalla previsione di una serie articolata di obblighi a carico di entrambe le parti, i quali si affiancano alle obbligazioni principali scaturenti dal contratto di lavoro rappresentate, per il lavoratore, dalla prestazione lavorativa e, per il datore di lavoro, dal pagamento della retribuzione.

Tuttavia, per gli Ermellini il trasferimento contra legem ad altra sede lavorativa disposto dal datore di lavoro, ovvero in assenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, non giustifica in via automatica il rifiuto del lavoratore all'osservanza del provvedimento, quindi la sospensione della prestazione lavorativa.

La Cassazione ha, perciò, espresso il seguente principio:

“In tema di provvedimento di trasferimento adottato in violazione dell'art. 2103 cod. civ., l'inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell'art. 1460, comma 2, cod. civ. alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede.”

In definitiva, il lavoratore può rifiutare il trasferimento ad altra sede di lavoro solo se questo è contrario alla buona fede avuto riguardo alle circostanze concrete del caso, non se mancano le ragioni tecniche, organizzative e produttive.

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