Bancarotta fraudolenta: i vantaggi ottenuti salvano il gruppo se il saldo finale è positivo

Pubblicato il 11 dicembre 2013 La Corte di Cassazione, quinta sezione penale, con la sentenza 49787 del 10 dicembre 2013, chiarisce il tema dell’applicabilità del terzo comma dell’articolo 2634 del Codice civile, in sede fallimentare.

La norma, introdotta nel nostro ordinamento con la riforma dei reati societari del 2002, disciplina la fattispecie dell’infedeltà patrimoniale all’interno di gruppi societari ed esclude che, in caso di rapporto tra due società del medesimo gruppo, in presenza di vantaggi “conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo”, gli stessi vantaggi non siano definibili come “ingiusti” annullando così l’integrazione del reato suddetto.

In altre parole, i rapporti all’interno di gruppi societari possono dar vita a svantaggi apparenti o temporanei senza che ciò possa far ricadere una colpa, per esempio, sulla condotta dell’amministratore delegato.

A prima vista, la Suprema Corte sembra voler riconoscere la valenza di tale principio anche in sede fallimentare. Tuttavia, la sentenza ridimensiona la portata della norma nel momento in cui afferma che per escludere la natura distrattiva del fatto compiuto è necessario considerare “solo il saldo finale positivo delle operazioni”: cosa che avviene in sede di verifica dell’attivo fallimentare.

Ecco, dunque, che i Giudici di legittimità, rigettando il ricorso contro la condanna per bancarotta fraudolenta per dissipazione proposto da un consigliere di amministrazione di una Spa, affermano che, in caso di fallimento, gli atti distrattivi dell’amministratore a favore di altre società dello stesso gruppo possono trovare una giustificazione nei “vantaggi compensativi” solo se il saldo finale è positivo anche per la società temporaneamente penalizzata.
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