Bancarotta “riparata” mediante transazione: via la condanna

Pubblicato il 03 dicembre 2020

Annullata la condanna per bancarotta dell’amministratore di una Srl che aveva più volte utilizzato la carta di credito aziendale per acquisti di beni e servizi estranei alle necessità dell’impresa. I giudici di merito non avevano considerato l’attività di reintegrazione del patrimonio della società dallo stesso posta in essere prima della dichiarazione di fallimento, consistente in una rinuncia a crediti certi ed esigibili.

Carta di credito aziendale per acquisti estranei ad impresa: bancarotta distrattiva

La Corte di cassazione ha annullato, con rinvio, la sentenza con cui i giudici di merito avevano condannato per bancarotta fraudolenta per distrazione il componente del Cda di una Srl, dichiarata fallita.

L’imputato era stato accusato di aver distratto le risorse della società, per circa 78mila euro, utilizzando a più riprese la carta di credito aziendale per acquisti di beni e servizi estranei alle necessità dell’impresa comprese le spese di villeggiatura in rinomate località turistiche estive e invernali.

Egli aveva promosso ricorso in sede di legittimità lamentando, tra gli altri motivi, violazione di legge e vizi di motivazione per quanto riguardava la valutazione operata dai giudici di gravame in ordine ad una transazione tra lo stesso e la società che, intervenuta nel corso della procedura concorsuale, avrebbe escluso l’imputazione, influendo sull’elemento psicologico del reato e sotto il profilo della bancarotta riparata e della scriminante di cui all’art. 50 del Codice penale.

Bancarotta "riparata" se il patrimonio dell’impresa è reintegrato prima del fallimento

Doglianza che la Suprema corte, con sentenza n. 34290 del 2 dicembre 2020, ha giudicato fondata: la Corte d’appello aveva escluso che alla transazione in oggetto, con cui il ricorrente aveva rinunciato all’indennità di buona uscita e ad altre voci dello stipendio, fossero associabili alla fattispecie della “bancarotta riparata”, sull’assunto che anche se l’imputato aveva rinunciato a quelle pretese non aveva ancora restituito i beni distratti prima della dichiarazione di fallimento.

Sul punto gli Ermellini hanno richiamato il consolidato orientamento di legittimità, ai sensi del quale la bancarotta riparata si configura quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimenti, così annullando il pregiudizio per i creditori o anche solo la potenzialità di un danno.

Tale attività di segno contrario che annulli la sottrazione deve reintegrare il patrimonio dell’impresa prima della dichiarazione di fallimento, evitando il pericolo che la garanzia dei creditori acquisisca effettiva concretezza.

Nel caso esaminato, i giudici di gravame non avevano fatto buon governo di questo principio, posto che non avevano provveduto alla necessaria valutazione circa la fondatezza delle pretese e, segnatamente, circa l’individuazione dell’entità delle spettanze dell’imputato, la natura dei crediti vantati e la posizione degli stessi rispetto a quelli ammessi alla procedura fallimentare e, dunque, delle somme risparmiate dalla società e dalla procedura fallimentare in virtù dell’accordo transattivo.

Andava considerato - ha concluso la Corte - che ai fini della configurabilità della bancarotta riparata non è necessaria la restituzione del singolo bene sottratto - peraltro, nella specie, bene fungibile, trattandosi di denaro - ma un’attività di integrale reintegrazione del patrimonio anteriore alla declaratoria di fallimento, attività che ben potrebbe essere integrata da una rinuncia a crediti certi ed esigibili.

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