Nel contesto dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, il legislatore italiano ha adottato una serie di misure straordinarie volte a tutelare la stabilità occupazionale e il tessuto produttivo nazionale.
Tra queste, particolare rilievo ha assunto il cosiddetto blocco dei licenziamenti, introdotto e reiterato nel corso del 2020 per contrastare gli effetti economico-sociali derivanti dalla crisi sanitaria.
La ratio di tali misure si fondava sull’obiettivo di evitare il repentino deterioramento delle condizioni occupazionali e contenere le conseguenze sociali derivanti da licenziamenti per motivi economici, in un periodo caratterizzato da forte instabilità.
In tale quadro emergenziale, è sorta una questione giuridica di particolare complessità e rilievo costituzionale: l’esclusione dei dirigenti dall’ambito di applicazione del divieto di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo; tale divieto, infatti, è stato previsto da più decreti legge ma la relativa formulazione normativa ha generato dubbi interpretativi sulla sua estensibilità anche ai lavoratori con qualifica dirigenziale.
La problematica si è concretizzata nel contesto di controversie giudiziarie in cui dirigenti, licenziati per motivi economici durante la vigenza delle norme emergenziali, hanno impugnato il recesso datoriale invocando l’applicazione del blocco.
Su questo tema si è espressa la Corte Costituzionale con la sentenza n. 141 del 31 luglio 2025.
L’origine del giudizio di legittimità in via incidentale trae spunto da tre ordinanze di rimessione: due emesse dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, in data 29 maggio 2024, e una dalla Corte d’appello di Catania, sezione lavoro, del 27 gennaio 2025. I giudici rimettenti hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 3 della Costituzione, denunciando l’irragionevole disparità di trattamento tra dirigenti e altri lavoratori subordinati in relazione all’operatività del blocco dei licenziamenti.
Art. 14, comma 2, del D.L. n. 104/2020
Il decreto legge 14 agosto 2020, n. 104 (articolo 14 comma 2) ha disposto che, a determinate condizioni, «resta preclusa al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604», sospendendo altresì le procedure in corso di cui all’articolo 7 della medesima legge.
La norma è chiaramente riferita ai licenziamenti individuali per motivi economici, e si colloca in una cornice più ampia volta a garantire la conservazione dei posti di lavoro durante l’emergenza Covid-19. Tuttavia, il richiamo testuale all’art. 3 della legge n. 604/1966 ha sollevato il dubbio interpretativo circa la sua applicabilità ai dirigenti, in quanto tale legge esclude espressamente, all’articolo 10, la categoria dei dirigenti dal proprio ambito soggettivo di applicazione.
La giurisprudenza di legittimità ha adottato una interpretazione restrittiva, affermando che il divieto previsto dall’art. 14, comma 2, del D.L. n. 104/2020 non possa essere esteso ai dirigenti, motivando tale posizione con la natura eccezionale e di stretta interpretazione della disposizione, che fa riferimento ad una tipologia di recesso che non include i rapporti dirigenziali, storicamente disciplinati dal regime del recesso ad nutum (art. 2118 c.c.) e dalla nozione di “giustificatezza” contrattuale.
Art. 46 del D.L. n. 18/2020
Il decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 ha introdotto per la prima volta il blocco dei licenziamenti nell’ordinamento italiano a seguito della dichiarazione dello stato di emergenza sanitaria. L’art. 46, comma 1, ha disposto che, per un periodo di cinque mesi, il datore di lavoro «non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/1966».
Analogamente alla disposizione sopra richiamata, anche in questo caso il rinvio all’articolo 3 della legge n. 604/1966 ha costituito il fulcro dell’interpretazione giurisprudenziale e della questione di costituzionalità.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infatti che il legislatore, con tale formulazione, abbia deliberatamente escluso i dirigenti dal campo di applicazione della misura emergenziale, confermando l’orientamento secondo cui le norme eccezionali non possono essere oggetto di interpretazione analogica in assenza di una espressa previsione normativa.
Secondo i giudici rimettenti, tuttavia, tale esclusione configurerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, poiché la ratio della norma - prevenire licenziamenti economici in periodo di crisi - si applica anche alla categoria dei dirigenti, esposti comunque agli effetti della contrazione economica causata dalla pandemia.
Art. 12, comma 10, del D.L. n. 137/2020
Con il decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137 il legislatore ha ulteriormente prorogato il blocco dei licenziamenti, mantenendone l’impostazione strutturale. L’art. 12, comma 10, ha infatti ribadito che «resta, altresì, preclusa al datore di lavoro [...] la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge n. 604/1966», sino alla data del 31 gennaio 2021.
In tale contesto, la Corte d’appello di Catania, in una controversia avente ad oggetto il licenziamento per motivi economici del direttore generale di una società pubblica, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale rilevando un “palese difetto di simmetria” nel trattamento riservato ai dirigenti. La Corte ha osservato che i dirigenti, pur essendo inclusi nel blocco dei licenziamenti collettivi (in virtù della modifica all’art. 24 della legge n. 223/1991 operata dalla legge n. 161/2014), risultano esclusi dal divieto relativo ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, con conseguente irragionevolezza del sistema normativo.
Secondo la Corte rimettente, non vi sarebbero infatti motivi sufficienti a giustificare la disparità di trattamento, considerando che il sacrificio imposto al datore di lavoro risulta addirittura maggiore nel caso del blocco dei licenziamenti collettivi (perché esteso a più lavoratori), rispetto a quello dei licenziamenti individuali di un singolo dirigente.
Corte di Cassazione, sezione lavoro
La questione di legittimità costituzionale oggetto della sentenza n. 141 del 31 luglio 2025, relativa al cosiddetto blocco dei licenziamenti, ha trovato origine dunque nelle due ordinanze della Corte di Cassazione, sezione lavoro, del 29 maggio 2024, rispettivamente iscritte ai nn. 150 e 151 del registro ordinanze 2024. Entrambe hanno sollevato dubbi di costituzionalità sull’efficacia delle norme emergenziali che, pur vietando i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, non estendono esplicitamente tale divieto alla categoria dei dirigenti.
Secondo i giudici rimettenti sussiste dunque un difetto di simmetria normativa che genera un’irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori subordinati non dirigenti e dirigenti.
Mentre i primi, infatti, beneficiano della piena operatività del divieto di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, ai secondi la tutela è preclusa nonostante siano parimenti esposti alle conseguenze economiche della crisi pandemica.
I giudici hanno ritenuto che la differenziazione tra licenziamenti individuali e collettivi all’interno della stessa categoria di lavoratori (i dirigenti) rappresenti una lacuna normativa non giustificabile sul piano costituzionale: la normativa emergenziale, infatti, riconosce ai dirigenti la tutela contro i licenziamenti collettivi, in conformità al diritto dell’Unione Europea (Direttiva 98/59/CE), ma esclude la stessa categoria dal divieto relativo ai licenziamenti individuali per motivi economici, sebbene anche questi possano produrre effetti pregiudizievoli comparabili.
I rimettenti hanno rilevato che questa “asimmetria” non è coerente né con la finalità di ordine pubblico perseguita dalla normativa emergenziale - cioè il mantenimento dell’occupazione durante la crisi pandemica - né con la logica di solidarietà collettiva che ha ispirato l’intero impianto legislativo del periodo. A loro avviso, l’esclusione dei dirigenti appare pertanto discriminatoria e contraria all’articolo 3 della Costituzione, che impone il principio di eguaglianza e ragionevolezza dell’azione legislativa.
Corte d’Appello di Catania
Una posizione analoga è stata assunta dalla Corte d’Appello di Catania, sezione lavoro, con l’ordinanza del 27 gennaio 2025, iscritta al n. 38 del registro ordinanze 2025: anche in questo caso, il giudice rimettente ha evidenziato la disparità di trattamento tra licenziamenti collettivi e licenziamenti individuali dei dirigenti. La Corte ha esteso le medesime censure di costituzionalità all’art. 12, comma 10, del D.L. n. 137/2020.
In particolare, la Corte di merito ha osservato che, pur essendo i dirigenti inclusi nel blocco dei licenziamenti collettivi in virtù delle modifiche normative introdotte dalla L. n. 161/2014 all’art. 24 della L. n. 223/1991, essi restano esclusi dalla tutela prevista per i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, che la norma censurata riferisce ai sensi dell’art. 3 della L. n. 604/1966.
Anche in questo caso, il giudice ha ritenuto non percorribile un’interpretazione costituzionalmente orientata, in quanto il testo normativo è chiaro e non consente estensioni in via analogica, trattandosi di normativa eccezionale.
La Corte Costituzionale, riunendo i tre giudizi incidentali, ha preliminarmente dichiarato ammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate affermando, in particolare, che la rinuncia al giudizio principale avvenuta in uno dei casi oggetto di scrutinio (ordinanza n. 151/2024) non incide sulla rilevanza della questione ai sensi dell’art. 21 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Il principio di autonomia del giudizio incidentale prevale infatti su eventuali eventi sopravvenuti nel procedimento a quo.
Inoltre, la Corte ha escluso che potesse praticarsi un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate: il richiamo all’art. 3 della legge n. 604/1966, che esclude esplicitamente i dirigenti dal proprio ambito applicativo, è stato ritenuto chiaro, inequivocabile e non estensibile analogicamente, come peraltro confermato dal diritto vivente della Corte di Cassazione.
Nel merito, la Corte ha evidenziato che i dirigenti rappresentano una categoria giuridicamente distinta rispetto agli altri lavoratori subordinati (quadri, impiegati, operai), come stabilito dall’art. 2095 del codice civile.
Il rapporto dirigenziale si caratterizza per l’elevato livello di autonomia, fiducia e responsabilità, che giustifica un regime peculiare di recesso storicamente fondato sull’art. 2118 c.c. (recesso ad nutum), salvo le tutele di tipo convenzionale previste nei contratti collettivi.
La Corte ha confermato che la nozione di "giustificatezza" del licenziamento dirigenziale, tipica della disciplina contrattuale collettiva, non coincide con il giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della L. n. 604/1966, e che pertanto non sussiste omogeneità giuridica tra le categorie in esame.
Coerenza tra disciplina ordinaria ed emergenziale
La Consulta ha poi rilevato che la differenziazione operata dalla normativa emergenziale è coerente con l’impianto normativo ordinario: anche nella disciplina vigente in epoca pre pandemica, i dirigenti erano esclusi dal regime vincolistico del licenziamento per motivo oggettivo ma inclusi nelle garanzie procedurali dei licenziamenti collettivi.
Il legislatore ha dunque replicato un’asimmetria già presente nel sistema, e ciò è stato ritenuto non irragionevole, soprattutto alla luce della più ampia discrezionalità che il legislatore detiene in fase emergenziale, come riconosciuto dalla stessa Corte in precedenti pronunce (si veda la sentenza n. 213/2021).
Giurisprudenza consolidata e diritto vivente
La Corte ha altresì valorizzato la giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione, che esclude l’applicabilità delle norme sul blocco dei licenziamenti ai dirigenti, e ha affermato che tale orientamento giurisprudenziale costituisce diritto vivente.
Di conseguenza, un’eventuale estensione interpretativa della normativa censurata avrebbe comportato una violazione del principio di legalità, soprattutto in presenza di norme eccezionali.
Inoltre, la Corte ha ribadito il principio secondo cui le norme eccezionali non sono soggette ad analogia, e ogni estensione del loro ambito applicativo deve essere esplicitamente stabilita dal legislatore.
Infine, la Corte ha affrontato il delicato tema del bilanciamento tra libertà d’iniziativa economica (articolo 41 Cost.) e tutela del lavoro (articoli 1, 4, 35, 36 Cost.), ed in tale prospettiva ha ritenuto che la scelta del legislatore di non estendere il divieto di licenziamento individuale ai dirigenti costituisce una soluzione proporzionata che tiene conto del ruolo strategico dei dirigenti nell’organizzazione aziendale e del loro maggiore livello retributivo e contrattuale.
Inoltre, la Corte ha sottolineato che le misure di sostegno economico predisposte dal legislatore (integrazioni salariali, sgravi fiscali, crediti d’imposta) non si applicano ai dirigenti, con la conseguenza che un’estensione del blocco avrebbe gravato interamente sulla parte datoriale.
La scelta legislativa è stata quindi ritenuta conforme alla Costituzione, in quanto finalizzata a tutelare l’occupazione più vulnerabile, nel rispetto del principio di proporzionalità.
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Disposizione impugnata |
Questione di legittimità costituzionale sollevata |
Argomentazioni del giudice rimettente |
Motivazioni della Corte Costituzionale |
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Art. 14, co. 2, D.L. n. 104/2020 |
Violazione dell’art. 3 Cost. per esclusione dei dirigenti dal blocco dei licenziamenti individuali |
Asimmetria irragionevole: i dirigenti sono inclusi nel blocco dei licenziamenti collettivi ma esclusi da quello individuale |
Il blocco dei licenziamenti individuali per motivo oggettivo si riferisce ai lavoratori non dirigenti (art. 3 L. 604/1966); i dirigenti sono soggetti a regole differenti per natura giuridica del rapporto |
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Art. 46 D.L. n. 18/2020 |
Analoga violazione dell’art. 3 Cost. per disparità di trattamento |
L’interpretazione della norma esclude i dirigenti, creando un’incoerenza normativa rispetto alle finalità emergenziali |
Scelta coerente con la disciplina ordinaria: i dirigenti sono esclusi anche nella normativa generale dai vincoli sui licenziamenti individuali |
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Art. 12, co. 10, D.L. n. 137/2020 |
Disparità di trattamento irragionevole (art. 3 Cost.) |
Mancanza di tutela contro i licenziamenti economici individuali per i dirigenti, nonostante siano anch’essi soggetti a rischio |
Il legislatore ha operato un bilanciamento ragionevole tra iniziativa economica (art. 41 Cost.) e tutela del lavoro, tenendo conto dell’inapplicabilità degli ammortizzatori ai dirigenti |
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