Cartella clinica e responsabilità sanitaria

Pubblicato il 07 aprile 2016

L’imperfetta tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari, non può tradursi in uno svantaggio processuale per il paziente danneggiato.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, terza sezione civile, che, tornando ad occuparsi di responsabilità sanitaria, ha accolto il ricorso di due genitori per il risarcimento dei danni in conseguenza delle lesioni subite dalla figlia in occasione del parto, che erano esitate in una grave insufficienza mentale causate da asfissia perinatale.

Difettosa tenuta cartella clinica Nessun pregiudizio al paziente

Accogliendo le censure dei ricorrenti – circa le carenze nella tenuta della cartella clinica – la Corte ha ribadito il principio per cui, la struttura ed i sanitari che, come nel caso di specie, siano convenuti in giudizio per ipotesi di malpractice, sono tenuti a fornire la prova liberatoria richiesta dall'art. 1218 c.c., con la conseguenza che il mancato raggiungimento di tale prova (compreso il mero dubbio sull'esattezza dell’adempimento) non può che ricadere a loro carico.

E’ altresì noto, principalmente, che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può tradursi, sul piano processuale, in un pregiudizio per il paziente (Corte di Cassazione, sentenza n. 1538/2010) e che è anzi consentito il ricorso a presunzioni “in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato” (Corte di Cassazione, sentenza n. 10060/2010).

Tali principi, che costituiscono espressione del criterio di vicinanza della prova nel più ampio quadro della distribuzione degli oneri probatori, assumono speciale pregnanza in quanto destinati ad operare ai fini della valutazione della condotta del sanitario, nonché in relazione alla individuazione del nesso eziologico tra la condotta medica e le conseguenze dannose subite dal paziente (Corte di Cassazione, sentenza n. 12218/2015).

Ora nel caso qui esaminato– ha concluso la Corte con sentenza 6209 depositata il 31 marzo 2016 – non può dubitarsi che le difficoltà presentate dalla neonata comportassero la necessità di un attento monitoraggio post – natale, al fine di cogliere positivamente eventuali peggioramenti delle condizioni e di assicurare un immediato intervento. La Corte d’Appello – la cui sentenza è stata impugnata – ha pertanto errato laddove, a fronte di un vuoto di ben sei ore nelle annotazioni della cartella clinica, ha ritenuto di condividere l’ipotesi per cui la neonata non potesse essere stata lasciata senza la necessaria assistenza da parte dei sanitari.

Si tratta infatti di una conclusione, nella specie, contraria alle effettive risultanze documentali e che viola il menzionato principio secondo cui l’imperfetta compilazione della cartella clinica non può tradursi in uno svantaggio processuale per il paziente (anziché per la parte a cui il difetto di annotazione è imputabile), trattandosi di un inammissibile vulnus al criterio che onera la parte convenuta della prova liberatoria in merito all'esattezza del proprio adempimento.

Cartella lacunosa Ricorso a presunzioni

Analogamente la Corte di Cassazione – con sentenza n. 10315 del 21 giugno 2012 –  respingendo il ricorso di un medico cui era stata addebitata la scorretta esecuzione di manovre con ventosa ostetrica durante un parto, ha affermato il principio secondo cui, in tema di responsabilità professionale sanitaria, il nesso causale sussiste quando, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si possa ritenere che l’opera del medico se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto fondate possibilità di evitare il danno.

A tal fine, dunque, la difettosa tenuta della cartella clinica non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta colposa del medico e le conseguenze sofferte dal paziente, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provare il danno. Consente, invece, il ricorso a presunzioni, assumendo rilievo, al riguardo, il criterio della vicinanza della prova, ovvero della effettiva possibilità dell’una o dell’altra parte di offrirla.

In altre parole, secondo la Corte, la responsabilità del medico può essere accertata anche qualora la “lacunosità” della cartella clinica, come nel caso de quo, non consenta di ricostruire l’andamento dei fatti.

Cartella sufficiente ad affermare responsabilità

Ancora, punta il dito sulla rilevanza della cartella clinica la Corte di Cassazione, con sentenza n. 2990 depositata l’8 giugno 2012, ove – nell'accogliere il ricorso di un paziente danneggiato a seguito di una medicazione sbagliata - ne ha ritenuto sufficiente il contenuto ad affermare la responsabilità del sanitario.

Nella cartella clinica era infatti riportato, nel caso de quo, l’uso di tre farmaci impiegati per la medicazione della ferita, uno dei quali aveva provocato la grave invalidità al paziente.

Sul punto, la sentenza recita che l’uso contemporaneo dei tre medicamenti – ritenuto dai consulenti idoneo a provocare l’evento lesivo – risultava dalla cartella clinica compilata dai medici; cartella di cui il sanitario ha l’obbligo di controllare la completezza e l’esattezza ex art. 1176 comma 2 c.c.

Da ciò deriva che quanto attestato nella cartella clinica deve ritenersi effettivamente accaduto, a meno che i medici non provino il diverso significato da attribuire, nella specie, al contemporaneo richiamo delle tre sostanze.

Da tutto ciò emerge – ai fini dell’affermazione della responsabilità sanitaria – l’importanza della cartella clinica, definita quale documento o insieme di documenti che raccolgono le informazioni necessarie a rilevare il percorso diagnostico-terapeutico di un paziente, al fine di determinare le cure da somministrare.

Cartella clinica Atto pubblico fino a querela di falso

La cartella clinica è considerata a tutti gli effetti atto pubblico avente fede previlegiata, in quanto redatta da pubblico ufficiale avente la capacità di esternare la volontà della pubblica amministrazione attraverso un’attività certificativa.

Sul punto, la giurisprudenza, già da tempo ha avuto modo di esprimersi dichiarando la cartella, sia su supporto cartaceo che informatico, un atto pubblico (Corte di Cassazione, sentenza n. 7958 dell’11 luglio 1992) facente piena prova fino a querela di falso del decorso clinico della malattia del paziente e dei vari fatti clinici che lo interessano.

Falso ideologico e materiale

Al riguardo, i reati più significativi che trovano la propria fonte nella redazione della cartella clinica sono rispettivamente, i reati di falso ideologico e falso materiale, di cui agli artt. 479 e 476 c.p..

La configurabilità del primo reato sussiste nel caso in cui colui che è chiamato a redigere detto documento attesta fatti non conformi al vero, mentre sussiste il secondo quando si tratta di un’alterazione, ovvero una modifica, un’aggiunta o cancellazione successiva alla formazione dell’atto medesimo, anche se protesa al ripristino della verità dei fatti in esso contenuti.

In proposito, secondo la Suprema Corte, risponde di falso materiale il sanitario che aggiunge posteriormente una nota nella cartella clinica della paziente. Ciò poiché la pubblica fede, costituente il bene giuridico protetto, è leso anche quando, indipendentemente dal contenuto dell’atto pubblico, non vi sia corrispondenza tra l’iter di formazione del medesimo atto e quello che appare dal suo aspetto grafico, dandosi luogo anche in tale ipotesi ad una falsa rappresentazione di una realtà giuridicamente rilevante. 

Inoltre – prosegue ancora la Corte – sempre in materia di falso documentale, ai fini della esclusione della punibilità per inidoneità dell’azione ai sensi dell’art. 49 c.p., occorre che appaia in maniera evidente la falsificazione dell’atto e non solo la sua modificazione grafica. Di conseguenza le abrasioni e scritturazioni sovrapposte a precedenti annotazioni, le aggiunte evidenti, pur se eseguite a fini illeciti immediatamente riconoscibili, non possono considerarsi di per sé e senz’altro  un indice di falsità talmente evidente da impedire la stessa eventualità di un inganno alla pubblica fede, giacché esse possono essere o apparire una correzione irregolare, ma non delittuosa, di un errore materiale compiuto durante la formazione del documento alterato dal suo stesso autore (Corte di Cassazione, sentenza n. 37314 del 11 settembre 2013).

Infine, risponde per falsità materiale il medico ospedaliero che aggiunge annotazioni alla cartella clinica il giorno dopo gli esami, a prescindere dal fatto che le annotazioni siano vere. Sulla scorta di ciò, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 42917 del 21 novembre 2011, ha confermato la condanna per falsificazione, di un medico chirurgo che, dopo il decesso del paziente, ha aggiunto sulla cartella la dicitura sulle condizioni e sulle cure disposte, con la giustificazione “di aver solo posticipato la redazione della relazione”.

Inoltre ai fini della sussistenza dei predetti reati (falsità ideologica e materiale), è necessario che colui che compie l’attività illecita di alterazione o contraffazione della cartella clinica sia un pubblico ufficiale, con ciò esprimendo la stretta correlazione tra l’attività delittuosa e colui che è chiamato a svolgere pubbliche funzioni.

Nell’ambito del settore medico sanitario può assumere la qualifica di pubblico ufficiale, ad esempio, il dirigente di un’unità operativa, il medico di presidio, ecc. e quindi tutti coloro che per la natura delle funzioni esercitate hanno la capacità, come sopra specificato, di esteriorizzare la volontà della pubblica amministrazione e, conseguentemente, di porre in essere condotte delittuose idonee a pregiudicare il corretto funzionamento della stessa p.a. (per quanto riguarda le strutture sanitarie pubbliche).

Tuttavia la Cassazione ha stabilito che anche il medico che lavora in una clinica privata, anche solo parzialmente convenzionata con il servizio sanitario nazionale, svolge una funzione pubblica certificativa e risponde di falsità in atto pubblico se sostituisce o altera la cartella di un suo paziente (Corte di Cassazione, sentenza n. 19557 del 24 maggio 2010).

Omissione in cartella Colpa medica

Circa le ipotesi in cui l’operatore sanitario ometta di rispettare l’obbligo di corretta tenuta della cartella clinica e da ciò ne sia derivata una lesione alla salute del paziente, si è già anticipato, analizzando le pronunce giurisprudenziali di cui sopra.

Sul punto tuttavia la Cassazione, già da tempo ed in diverse occasioni, non ha mancato di riconoscere in capo all’esercente la professione sanitaria un tipo di responsabilità caratterizzata da colpa, laddove si riscontri un’omissione e comunque la mancata segnalazione, nella cartella clinica, di manifestazioni cliniche rilevanti, di trattamenti clinici medicamentosi e di atti operatori (Corte di Cassazione, sentenza n. 12103/2000 e n. 10414/2000).

Le predette argomentazioni consentono dunque di ritenere negligente ed imperita la condotta del medico nel momento in cui non rediga la cartella clinica in modo completo, perfetto e senza omissioni.

Giova infatti ricordare che la cartella clinica assolve alla funzione di diario clinico del decorso della malattia e di altri fattori clinici rilevanti e quindi, in essa dovranno essere annotati tutti gli eventi connessi allo stato di salute del paziente contestualmente al loro verificarsi.

Conseguentemente, la lacunosità, irregolarità ed incompletezza della cartella clinica, qualora siano fonte di danno per la salute del paziente, possono determinare il sorgere di una responsabilità sia sul piano civile che penale (ad es. lesioni colpose, omicidio colposo) per il medico sul quale incombeva l’obbligo di corretta tenuta della cartella clinica stessa.

In proposito, non sono mancate pronunce – secondo un orientamento ormai consolidato nel tempo – volte ad apprezzare la scorretta compilazione della cartella come fattore idoneo a determinare l’inversione dell’onere della prova. Pertanto, la mancata indicazione del compimento di una determinata attività nel diario clinico farebbe sorgere  una presunzione iuris tantum di mancata effettuazione della stessa (come tale suscettibile di prova contraria) (Trib di Roma 28 gennaio 2002). Sarà dunque il medico a dover dimostrare, in tale situazione, di aver posto in essere tutti quegli atti imposti dalla leges artis (Corte di Cassazione, sentenza n. 12103/2000 e n. 10414/2000).

Significato probatorio della cartella

In particolare la Cassazione, con la nota pronuncia n. 12103/2000 – secondo un orientamento da ultimo richiamato con sentenza n. 6209/2016 – ha precisato come l’imperfetta compilazione della cartella clinica, nel caso in cui ne derivi l’impossibilità di trarne utili elementi di valutazione sulla condotta del medico, non può tradursi in un pregiudizio per il paziente. Ciò puntando l’indice, nel caso di specie, soprattutto sulle carenze rilevate nella cartella che non fu compilata dal ginecologo nel modo dovuto, tanto che in essa non furono annotati, come il medico avrebbe dovuto fare con puntualità, tutti gli atti diagnostici e terapeutici compiuti, né tanto meno il decorso del parto nelle sue diverse fasi.

Ed ancora, laddove l’omessa o incompleta compilazione della cartella non consenta di stabilire quali siano stati il processo diagnostico – terapeutico attuato dal medico ed il decorso della malattia, il giudice legittimamente, attraverso presunzioni logiche quali fonti di prova, può risalire a quello che presuntivamente fu il comportamento positivo oppure omissivo del medico ed all’andamento della patologia (Corte di Cassazione, sentenza 11316/2003, sentenza n. 10060/2010).

In sostanza, attraverso dette pronunce, la Corte di Cassazione assegna alla cartella clinica un significato probatorio ed addebita a negligenza (produttiva di colpa per il sanitario) la mancata registrazione in essa di eventuali esami, sanzionando con molta severità il comportamento del medico ritenuto “non conforme a scienza e coscienza” sulla scorta di indicazioni probatorie presuntive e non certo in base a dati obiettivi (Corte di Cassazione, sentenza n. 583 del 13 gennaio 2005).

Quadro Normativo

art. 1218 c.c.;

art. 1176, comma 2 c.c.;

art. 476 c.p.;

art. 479 c.p.;

art. 79 c.p.;

Corte di Cassazione, sentenza n. 6209 del 31 marzo 2016;

Corte di Cassazione, sentenza n. 1538/2010:

Corte di Cassazione, sentenza n. 10060/2010;

Corte di Cassazione, sentenza n. 12218/2015;

Corte di Cassazione, sentenza n. 10315 del 21 giugno 2012;

Corte di Cassazione, sentenza n. 2990 dell’8 giugno 2012;

Corte di Cassazione, sentenza n. 7958 dell’11 luglio 1992;

Corte di Cassazione, sentenza n. 37314 del 11 settembre 2013;

Corte di Cassazione, con sentenza n. 42917 del 21 novembre 2011;

Corte di Cassazione, sentenza n. 19557 del 24 maggio 2010;

Corte di Cassazione, sentenza n. 12103/2000;

Corte di Cassazione, sentenza n. 10414/2000;

Tribunale di Roma del 28 gennaio 2002;

Corte di Cassazione, sentenza 11316/2003;

Corte di Cassazione, sentenza n. 583 del 13 gennaio 2005.

 

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