La reiterata violazione del diritto dei dipendenti alla pausa lavorativa può determinare un danno da usura psicofisica, il cui accertamento può avvenire anche tramite presunzioni e non è sindacabile in sede di legittimità.
Con ordinanza n. 20249 del 19 luglio 2025, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, si è pronunciata in materia di danno da usura psicofisica derivante dalla reiterata mancata fruizione delle pause lavorative previste dall’art. 8 del Decreto Legislativo n. 66 del 2003.
La decisione contribuisce a chiarire i criteri probatori applicabili in tema di risarcimento del danno non patrimoniale in ambito lavorativo.
L’art. 8 del D.lgs. n. 66/2003: obbligo della pausa giornaliera
L’art. 8 del D.lgs. 66/2003 stabilisce che, in assenza di diversa previsione contrattuale, il lavoratore ha diritto a una pausa non inferiore a dieci minuti ogni qualvolta l’orario giornaliero ecceda le sei ore.
Tale previsione risponde all’esigenza di tutelare la salute del lavoratore e prevenire l’insorgere di affaticamento psico-fisico, specie in ambiti ad alta intensità operativa come quello dell’emergenza sanitaria.
Principi generali sulla responsabilità datoriale
Ai sensi dell’art. 2087 c.c., in ogni caso, il datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.
L’eventuale omissione configura un inadempimento contrattuale (art. 1218 c.c.) che può dare luogo a responsabilità risarcitoria, qualora venga provato il danno subito e il nesso causale.
Secondo l’art. 1223 c.c., in particolare, il risarcimento deve comprendere sia la perdita subita, sia il mancato guadagno direttamente derivanti dall'inadempimento.
Il giudizio di merito
Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, alcuni dipendenti di un'azienda sanitaria pubblica avevano impugnato una decisione del Tribunale di Velletri che, pur riconoscendo loro il diritto alla pausa lavorativa a partire dal dicembre 2008, aveva respinto la relativa richiesta di risarcimento.
La Corte d’Appello di Roma, in sede di gravame, aveva invece accertato che la violazione dell’obbligo di concedere le pause si era protratta per oltre dieci anni e, ritenendo sussistente un danno da usura psicofisica, aveva condannato l’amministrazione a risarcire i lavoratori.
Il ricorso per cassazione
L’ente datore di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello, articolando tre principali motivi di impugnazione.
Ha sostenuto, in primo luogo, che spettasse ai lavoratori provare in modo dettagliato il danno subito e il nesso causale con la condotta datoriale.
A seguire, ha contestato l’idea che il danno potesse considerarsi automaticamente esistente solo per effetto della violazione, ritenendolo contrario ai principi dell’ordinamento.
Infine, parte ricorrente ha criticato la sentenza di merito per non aver motivato adeguatamente il criterio seguito nella quantificazione del risarcimento del danno.
La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibili i primi due motivi di ricorso, escludendo la fondatezza delle critiche mosse alla decisione della Corte d’Appello.
I giudici di legittimità hanno precisato che, nel nostro ordinamento, il riconoscimento del danno non può avvenire automaticamente – ossia “in re ipsa” – sulla base della sola violazione di una norma.
Tuttavia, nel caso di specie, risultava già accertato con giudicato l’inadempimento del datore di lavoro, consistente nella reiterata violazione dell’art. 8 del D.lgs. 66/2003, protrattasi per oltre dieci anni.
Tale violazione, per la sua durata e gravità, è stata ritenuta dalla Corte d’Appello idonea a far presumere l’esistenza di un danno da usura psicofisica, sulla base di elementi gravi, precisi e concordanti.
Nella specie, infatti, pur essendo stato escluso il riconoscimento di un danno in re ipsa era stata dimostrata - si legge nella decisione - "una lesione della sfera giuridica dei lavoratori che, essendosi protratta negli anni senza soluzione di continuità, è stata qualificata come idonea, almeno in via presuntiva, a produrre un pregiudizio significativo".
La Cassazione ha quindi confermato che l'accertamento operato, fondato su presunzioni e adeguatamente motivato, rientrava nella piena discrezionalità del giudice di merito.
In merito al terzo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione ha ritenuto adeguata la motivazione fornita dalla Corte d’Appello in ordine alla quantificazione del risarcimento.
I giudici territoriali avevano basato la liquidazione su una pluralità di elementi oggettivi: la durata delle pause non godute, le buste paga dei lavoratori, le tabelle contrattuali applicabili e i conteggi presentati dagli stessi dipendenti.
Sebbene sintetica, la motivazione è stata considerata sufficiente a rendere chiaro il ragionamento seguito dal giudice di merito per determinare l’importo dovuto.
La Corte di legittimità, in conclusione, ha affermato il seguente principio di diritto, che costituisce il fulcro giuridico della pronuncia:
“La reiterata violazione della normativa in tema di pause lavorative ex art. 8 d.lgs. n. 66 del 2003 può tradursi in un danno da usura psico-fisica per il dipendente, la cui esistenza può, in presenza di valida allegazione sul punto, essere stabilita dal giudice anche tramite il ricorso a presunzioni. Il relativo accertamento, qualora debitamente motivato in maniera conforme al disposto dell’art. 111 Cost., non è più sindacabile, in quanto tale, in sede di legittimità.”
Cosa succede se un lavoratore non fruisce della pausa minima prevista dalla legge?
Il datore di lavoro può essere ritenuto responsabile per inadempimento contrattuale. Se l’omissione è reiterata e incide sulla salute del lavoratore, può essere riconosciuto un danno risarcibile.
È sempre necessario dimostrare il danno psicofisico subito?
Sì, ma la prova può avvenire anche tramite presunzioni quando vi è una reiterata violazione normativa già accertata e allegazioni adeguate.
Come può un datore di lavoro evitare responsabilità per usura da mancata pausa?
Assicurandosi che l’orario di lavoro consenta il rispetto dell’art. 8 del D.lgs. 66/2003 e documentando le modalità organizzative che garantiscono la fruizione della pausa minima.
Quali documenti servono per provare la mancata fruizione della pausa?
Turni di servizio, buste paga, testimonianze, assenza di registrazioni di pause o mancanza di regolamentazione contrattuale interna sono elementi rilevanti.
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