E’ stata confermata dai giudici di Cassazione la decisione con cui, nel merito, era stata dichiarata l’illegittimità di un licenziamento disciplinare comminato ad una lavoratrice per asserito comportamento denigratorio nei confronti del datore di lavoro.
La donna era stata incolpata per aver sottoscritto un esposto indirizzato alla procura della Repubblica e al ministero del Lavoro con cui aveva duramente criticato la società datrice perché, nonostante fosse in continua crescita, aveva fatto ricorso impropriamente a procedure di cassa integrazione e di mobilità, realizzando gli estremi di una truffa a danno dello Stato.
La Suprema corte – sentenza n. 996 del 17 gennaio 2017 – ha aderito ai rilievi contenuti nella pronuncia di merito, dove era stato rimarcato che la lavoratrice aveva fatto riferimento a circostanza già discusse in sede aziendale e sindacale.
Inoltre, era stato evidenziato che l’esposto non aveva inciso in alcun modo sulla comunicazione mediatica e sulle dinamiche endoaziendali, dato anche il lungo tempo trascorso fra l’invio del medesimo e quello della lettera di contestazione del licenziamento poi ricevuta dalla dipendente.
Per i giudici di merito, ossia, l’esposto stesso si risolveva semplicemente nella sottoposizione alle autorità competenti della richiesta di vaglio di una situazione già all’attenzione del pubblico dibattito.
Nel testo della decisione di legittimità è stato, sul punto, ricordato come il diritto di cronaca, e di critica quindi, è legittimo se rispetta il principio della continenza sostanziale, secondo cui i fatti narrati devono corrispondere a verità, e quello della continenza formale, secondo cui l’esposizione dei fatti deve avvenire misuratamente.
E nella specie, secondo gli Ermellini, il diritto di critica esercitato dalla dipendente era stato coerente con i citati canoni di continenza sostanziale e formale entro i quali tale diritto andava esplicitato.
I fatti segnalati all’autorità giudiziaria - si legge nel testo della pronuncia – riportavano, infatti, il contenuto di quelli già riportati dalla stampa e discussi in sede istituzionale ed erano, quindi, coerenti con i canoni sostanziali del diritto.
Inoltre, anche il canone di continenza formale era stato rispettato in quanto, nell’esposto della donna, l’uso dei termini quali illecito o truffa era da ritenersi strettamente correlato a dei dati già conosciuti da tempo dall’opinione pubblica.
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