Divieto di velo al lavoro: legittimo se il datore segue politica di neutralità

Pubblicato il 16 luglio 2021

Il divieto imposto da una norma interna di un’impresa di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose può essere giustificato dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità nei confronti dei clienti o di prevenire conflitti sociali.

Questo a condizione che tale giustificazione risponda a un’esigenza reale del datore di lavoro, che tale politica di neutralità sia perseguita in modo coerente e sistematico e che il divieto si limiti allo stretto necessario.

Direttiva in tema di parità di trattamento nel lavoro, interpretazione

E’ quanto si legge nel testo della sentenza depositata ieri dalla Corte di giustizia, in relazione alle cause riunite C-804/18 e C-341/19, aventi a oggetto due domande di pronuncia pregiudiziale proposte da altrettanti tribunali tedeschi.

Entrambe le domande vertevano sull’interpretazione dell’articolo 2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettere a) e b), dell’articolo 4, paragrafo 1, e dell’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, nonché degli articoli 10 e 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

In particolare, la prima domanda era stata presentata nell’ambito di una controversia tra una lavoratrice e il suo datore di lavoro, in merito alla sospensione della prima dalle sue funzioni a seguito del suo rifiuto di rispettare il divieto imposto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi segno visibile di natura politica, filosofica o religiosa in presenza dei genitori o dei loro figli.

La seconda questione è stata invece presentata nel contesto di una causa tra una società proprietaria di una catena di drogherie e una dipendente, in merito alla legalità dell’ingiunzione rivolta a quest’ultima di astenersi dall’indossare, sul luogo di lavoro, segni vistosi e di grandi dimensioni di natura politica, filosofica o religiosa.

Divieto di segni non costituisce discriminazione diretta se applicato a tutti

Secondo la Corte di giustizia, una norma interna come quella sopra descritta può ritenersi giustificata dalla volontà del datore di lavoro di perseguire una politica di neutralità.

Essa non costituisce, nei confronti dei lavoratori che seguono determinate regole di abbigliamento in applicazione di precetti religiosi, una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, se sia applicata in maniera generale e indiscriminata.

La differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, derivante dalla predetta norma interna, può essere giustificata dalla volontà di presentarsi in modo neutrale nei confronti dei clienti o degli utenti.

Questo a condizione che:

Una discriminazione indiretta, in tale contesto, può essere giustificata solo se il divieto riguardi qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose.

No a divieto limitato a uso di segni vistosi e di grandi dimensioni: discriminazione diretta

Per contro, un divieto che si limiti all’uso di segni di convinzioni politiche, filosofiche o religiose vistosi e di grandi dimensioni è tale da costituire una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, che non può in ogni caso essere giustificata sulla base di tale medesima disposizione.

Difatti, nei casi in cui il criterio dell’uso di segni vistosi di grandi dimensioni delle convinzioni summenzionate sia inscindibilmente legato a una o più religioni o convinzioni personali determinate, il divieto di indossare detti segni avrà come conseguenza che taluni lavoratori saranno trattati in modo meno favorevole rispetto ad altri, il che equivale a una discriminazione diretta, non giustificabile.

Per finire, è stato sottolineato come le disposizioni nazionali che tutelano la libertà di religione possano essere prese in considerazione come disposizioni più favorevoli, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1 della menzionata direttiva, “nell’ambito dell’esame del carattere appropriato di una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali”.

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