Fatture false, prove certe

Pubblicato il 09 marzo 2016

La responsabilità penale per l’emissione di fatture false deve essere provata sulla base di fatti certi, non di meri indizi.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, terza sezione penale, accogliendo il ricorso di due contribuenti, legali rappresentanti di altrettante società, condannati, ex artt. 2 e 8 D.Lgs. 74/2000, l’uno per emissione di fatture false (riferite ad operazioni inesistenti) e l’altro per averle dedotte nella dichiarazione dei redditi.  Trattavasi in particolare di n. 3 fatture emesse a fronte dei servizi prestati per determinate annualità.

Secondo la Corte di Cassazione tuttavia, nel caso de quo gli argomenti dell’accusa, sulla base di meri indizi, non paiono idonei a fondare la responsabilità penale degli imputati.

Indizi: dati di fatto gravi, precisi e concordanti

Secondo la giurisprudenza infatti – ricorda la Suprema Corte – gli indizi devono corrispondere a dati di fatto certi – e pertanto non consistenti in mere ipotesi, congetture o giudizi di verosimiglianza – e devono essere, ex art. 192 c.p.p., gravi – cioè esprimere elevata probabilità di derivazione del fatto ignoto da quello noto – precisi, ovvero non equivoci, e concordanti, cioè convergenti verso l’identico risultato.

Tutti i sopra elencati requisiti devono rivestire il carattere della concorrenza, nel senso che in mancanza anche di uno solo di essi, gli indizi non possono assurgere a rango di prova idonea a fondare la responsabilità penale.  

Ora nel caso di specie il Supremo Collegio, chiamato a verificare l’esatta applicazione dei criteri di cui all’art. 192 c.p.p. nonché la logica interpretazione dei risultati probatori, segnala l’insufficienza dimostrativa degli indizi addotti in fase di merito; ad esempio, del fatto che il contratto tra le due società (i cui rappresentati erano imputati) fosse vigente solo per la prima annualità dell’intero periodo in contestazione.

Parimenti non dotato del requisito della gravità e della precisione indiziaria – conclude la Corte con sentenza n. 9448 dell’8 marzo – è il fatto che le società non avessero minutamente rendicontato la propria attività, potendo logicamente tale omissione ascriversi ai vincoli parentali esistenti tra i contribuenti, che potrebbero aver giustificato una gestione più informale dei reciproci rapporti. 

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