Forti divergenze sul luogo di lavoro? Non bastano per il danno da straining

Pubblicato il 07 ottobre 2022

No al risarcimento dei danni da straining in caso di accesa conflittualità tra datore e lavoratore, non concretizzatasi in condotte vessatorie.

Rigettata, in via definitiva, la domanda di risarcimento dei danni da mobbing e/o straining proposta nei confronti del datore di lavoro, un comune, da parte di una lavoratrice, già responsabile dei servizi finanziari e poi trasferita ai servizi sociali e cimiteriali.

I giudici di merito avevano escluso che fosse stato provato l'intento lesivo del datore, sostenendo che esso risultava in realtà incompatibile con l'esistenza di comportamenti asseritamente dannosi, ascritti a due diversi uffici amministrativi, non essendo spiegabile come gli stessi potessero convergere in un medesimo atteggiamento persecutorio.

Ciò che era emerso, dall'esame delle risultanze istruttorie, era una accesa conflittualità interpersonale, non trasmodata, però, in condotta vessatoria.

La dipendente si era rivolta alla Suprema corte, impugnando la decisione di merito mediante un unico motivo di ricorso secondo cui, pur in mancanza di un intento persecutorio, si sarebbe dovuto valutare l'attuarsi di condizioni stressogene di lavoro e di nocività ambientale, riconducibili alla fattispecie del cosiddetto "straining", da ricostruire anche in via presuntiva e, comunque, valutando il disagio lavorativo e il demansionamento quali fonti di danni non patrimoniali maturati in danno della ricorrente.

Con ordinanza n. 29059 del 6 ottobre 2022, la Sesta sezione civile della Cassazione ha giudicato infondata tale doglianza, rilevando come la Corte territoriale avesse esaminato, con dovizia di particolari ed ampia analisi istruttoria, le circostanze di causa.

Era legittima, ciò posto, la conclusione secondo cui, nella specie, era ravvisabile solo l'esistenza di un'accesa conflittualità tra le parti, non concretizzatasi in condotte vessatorie.

In tema di straining - hanno quindi ricordato gli Ermellini - l’obbligo datoriale di assicurare, anche ai sensi dell’art. 2087 c.c., un ambiente idoneo allo svolgimento sicuro della prestazione, potrebbe non escludere l’inadempimento se il lavoro si manifesti in sé nocivo per la connotazione indebitamente stressogena.

Le valutazioni di fatto operate nella vicenda di specie, tuttavia, avevano delineato soltanto una situazione di forti divergenze sul luogo di lavoro, tali da non determinare una situazione di nocività.

Il rapporto interpersonale - ha puntualizzato la Corte - specie se inserito in una relazione gerarchica continuativa e tanto più in una situazione di difficoltà amministrativa, è in sé possibile fonte di tensioni, atte a sfociare in una malattia del lavoratore solo se vi sia esorbitanza nei modi rispetto a quelli appropriati per il confronto umano, ragione di responsabilità ai sensi dell’art. 2087 del Codice civile.

Nella specie, l’esistenza di un disagio lavorativo non era da considerare decisiva, di per sé, proprio perché alla base delle conclusioni assunte dalla Corte territoriale vi era un giudizio di merito, non implausibile e giuridicamente corretto, che rendeva superflua ogni diversa considerazione.

Per come ricordato dalla giurisprudenza di legittimità, del resto, "l’apprezzamento dell’insussistenza dell’esorbitanza rispetto ad una situazione di conflittualità interpersonale esclude altresì che si possa ragionare in termini di omessa pronuncia, perché comunque l’accertamento fattuale svolto si colloca al di fuori della fattispecie del c.d. straining e dunque non ricorre errore di diritto".

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