I controlli a distanza alla luce del Jobs Act (prima parte)

Pubblicato il 14 gennaio 2016

L’art. 23 del D.lgs. n. 151/15 (c.d. Jobs Act) ha modificato la disciplina sui controlli a distanza dei lavoratori.

Alla novella ha fatto da prologo un ampio dibattito sui contenuti e sulle opportunità di intervento, che ha tentato di incidere su una materia ad alto tasso di sensibilità sociale e di complessità giuridica. La vera difficoltà della riforma è stata quella di adeguare la realtà normativa a un sostrato fattuale ormai mutato per effetto di una profonda evoluzione tecnologica e di trovare, pertanto, un punto di equilibrio, per vero sottile, tra i due interessi che costituiscono poi il comune denominatore di tutta la materia lavoristica: la tutela della riservatezza e della dignità della persona e del lavoratore e la tutela della libera iniziativa economica.
Ne è scaturita una riforma che non taglia con il passato e che, anzi, per certi aspetti pare restringere gli ambiti applicativi del controllo, ma che al tempo stesso rende più concreto il c.d. “grande fratello”, con cui si tende a tenere costantemente sotto controllo l’altrui persona.

Considerato che il testo complessivo della norma offre plurimi spunti di riflessione si è pensato di dividere l’analisi in due parti. In questa prima parte l’attenzione verrà focalizzata prevalentemente sull’individuazione del soggetto sul quale grava la responsabilità per l’eventuale violazione dell’art. 4 della L. n. 300/70. Nella seconda parte, invece, che sarà oggetto del prossimo contributo, si concentrerà lo sguardo sulla disciplina inerente all’utilizzo dei dati raccolti mediante i dispositivi di controllo.

Il principio ispiratore della riforma

Il principio posto alla base dell’art. 4 della L. n. 300 cit. viene sovvertito: ecco l’aspetto principale della riforma. Infatti, nel testo originario della norma, il controllo a distanza del lavoratore costituiva la deroga alla regola generale sancita al comma 1, che escludeva forme di verifica da remoto sulla prestazione lavorativa.
Attualmente il principio è quello per cui l’impresa ha facoltà di esercitare le proprie prerogative datoriali avvalendosi anche dei mezzi di controllo a distanza. È altrettanto vero che nel corso degli anni la giurisprudenza ha mitigato la portata del divieto di cui all’art. 4 comma 1, ammettendo comunque l’utilizzabilità dei dati, raccolti anche mediante forme occulte di controllo.

Controllo e tipologie contrattuali

Si ritiene, preliminarmente, che la norma novellata si applica, eccezion fatta per l’art. 2222 c.c., a tutti i lavoratori operanti nell’impresa, a prescindere dalla tipologia contrattuale con cui costoro espletano la prestazione lavorativa. Pertanto, nel raggio applicativo della previsione rientrano non solo i lavoratori subordinati, ma anche i collaboratori ex art. 409 c.p.c., ovvero i c.d. voucheristi.

Il controllo e le procedure sindacali o amministrative

L’art. 4 comma 1 della L. n. 300 cit., come novellato dall’art. 23 del D.lgs. n. 151 cit., sottende che l’imprenditore è libero di installare i dispositivi di controllo a distanza per tutelare le esigenze organizzative e produttive, la sicurezza del lavoro e il patrimonio aziendale. A tale fine non occorre alcuna autorizzazione o accordo sindacale.Tuttavia, se mediante tali dispositivi sussista l’astratta potenzialità per l’impresa di esercitare un controllo a distanza sulla prestazione lavorativa dei lavoratori, allora l’installazione dei predetti strumenti è consentita a condizione che venga concluso un accordo collettivo con le R.S.U. ovvero le R.S.A..
Ove all’interno dell’impresa non vi siano R.S.U. o R.S.A, l’accordo può essere raggiunto con le organizzazioni sindacali locali di categoria comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. La procedura sindacale va coltivata con le medesime organizzazioni qualora l’impresa abbia unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione, ovvero in più regioni.
In materia pare però doveroso menzionare l’indirizzo della S.C., la quale ha stabilito che “non integra il reato previsto dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) l’installazione di un sistema di videosorveglianza potenzialmente in grado di controllare a distanza l’attività dei lavoratori, la cui attivazione, anche in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, sia stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti” (cfr. Cass. pen. Sez. III, 17/04/2012, n. 22611). Stando a tale orientamento, pertanto, l’accordo con tutti i dipendenti surrogherebbe il c.d. filtro sindacale.
In difetto di accordo sindacale ovvero in alternativa a quest’ultimo, l’impresa può richiedere alla Direzione Territoriale del Lavoro il rilascio di apposita autorizzazione all’installazione dei dispositivi; autorizzazione che, stando alle previsioni contenute nel DPCM del 22 dicembre 2010, n. 275, deve essere rilasciata nel termine di sessanta giorni decorrenti dall’istanza.
Vale, altresì, aggiungere che nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più Direzioni territoriali del lavoro, la richiesta deve essere inoltrata al Ministero del Lavoro che provvede sull’istanza.
La novella ha soppresso il comma 3 dell’art. 4 della L. n. 300 cit. relativo alla giustiziabilità amministrativa dei provvedimenti adottati in materia dalla Direzione Territoriale del Lavoro. È ragionevole e logico ritenere che tale modifica non comporti l’eliminazione della facoltà di avvalersi degli strumenti di difesa all’uopo previsti dalle regole generali dell’ordinamento. Dal punto di vista della tutela amministrativa la normativa di riferimento è ancora contenuta nel D.P.R. n. 1198/71 con il quale il Legislatore ha dettato una disciplina organica dei ricorsi amministrativi (ricorso gerarchico, ricorso in opposizione e ricorso straordinario al Presidente della Repubblica). Sul versante della tutela giurisdizionale invece il testo di riferimento è il D.lgs. n. 104/10 (codice del processo amministrativo).
In generale, per i profili sopra evidenziati non sembra che la novella apporti significative modifiche rispetto al testo previgente alla riforma, se non che, accanto alle esigenze organizzative, produttive e di sicurezza, viene annoverata anche la tutela del patrimonio aziendale. Si tratta comunque di una novità che recepisce gli orientamenti della giurisprudenza, la quale aveva compreso il patrimonio aziendale tra gli oggetti tutelabili mediante i c.d. controlli difensivi (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 27/05/2015, n. 10955).

Dal datore di lavoro …all’impresa?

Ma vi è un altro e diverso aspetto che sembra realizzare una netta cesura con il passato, con la conseguenza di restringere paradossalmente la sfera applicativa della previsione di legge.
Infatti, il perno dell’art. 4 della L. n. 300 cit., nel testo previgente alla modifica, ruotava attorno alla figura del “datore di lavoro”, di tal che la sfera di applicazione della norma era alquanto ampia, perché abbracciava comunque tutti i datori di lavoro anche se non esercitavano un’impresa.
L’art. 23 del D.lgs. n. 151 cit. nel riscrivere l’art. 4 della L. n. 300 cit. ha soppresso la locuzione “datore di lavoro e sembrerebbe che abbia formulato la prima parte della norma in modo impersonale.
Al riguardo sembra che siano prospettabili due interpretazioni.

Prima interpretazione

Secondo una prima lettura, la formulazione impersonale della prima parte della norma conferirebbe a tutta la previsione di legge una valenza generale e trasversale. Se si assume infatti che il gergo “datore di lavoro” circoscrive i propri effetti alla tipologia di rapporti di lavoro subordinato (ma l’assunto non è pacifico, atteso che tale sintagma normativo ha acquisito, nel corso dell’ultimo decennio, un significato più ampio rispetto a quello originario), la finalità della modifica potrebbe essere proprio quella di estendere la tutela dell’art. 4 della L. n. 300 cit. in favore dei lavoratori, la cui controparte, non è il datore di lavoro, ma il committente: ergo i collaboratori ex art. 409 c.p.c. ovvero i lavoratori occasionali ex art. 48 del D.lgs. n. 81/15. Secondo tale orientamento il soggetto attivo degli obblighi del nuovo art. 4 comma 1 della L. n. 300 cit. sarebbe pertanto qualunque agente che, nell’esercizio della propria attività, sia essa commerciale o meno, si avvalga di lavoratori subordinati, parasubordinati o autonomi, con la sola eccezione della fattispecie di cui all’art. 2222 c.c.

Seconda interpretazione

Altra esegesi, invece, ritiene che la soppressione della locuzione “datore di lavoro” evidenzierebbe una chiara volontà di cambiamento rispetto al testo previgente. Secondo tale indirizzo la norma non sarebbe formulata in maniera impersonale, perché il termine di riferimento soggettivo, in realtà, sarebbe contenuto nel secondo periodo del nuovo art. 4 comma 1 della L. n. 300 cit., che disciplina il procedimento di conclusione dell’accordo sindacale per “le imprese” che abbiano unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più Direzioni territoriali del lavoro.
L’impresa, e solo quest’ultima, pertanto sarebbe il solo soggetto obbligato ai sensi del nuovo art. 4 della L. n. 300 cit..
D’altronde, se il promotore dell’accordo con le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale è “l’impresa”, quest’ultima non potrebbe che essere anche il soggetto obbligato nel caso in cui l’accordo, per assenza di ramificazione sul territorio nazionale debba essere raggiunto con le RSU ovvero le RSA. In altre parole, la dizione “in alternativa”, che precede il termine “impresa”, lascerebbe chiaramente intendere che solo quest’ultima è il soggetto di tutta la norma e quindi anche della prima parte della disposizione.
Tale esegesi, a bene vedere, appare più convincente, perché si basa su una lettura complessiva e non parcellizzata del riformato art. 4 comma 1 e anche perché appare più aderente ai principi tipicità e di tassatività della norma penale, qual è per l’appunto la disposizione in commento.

Conseguenze pratiche

Ben si comprende che ove si aderisse a quest’ultima interpretazione si dovrebbe concludere nel senso che l’art. 23 del D.lgs. n. 151 cit. avrebbe mutato la struttura della fattispecie penale di cui all’art. 4 della L. n. 300 cit., che da reato comune sarebbe divenuto reato proprio, perché realizzabile solo da colui che, ai sensi dell’art. 2082 c.c., esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. Senza addentrarsi nella complessa tematica circa la dimensione socio-giuridica dell’imprenditore, basti osservare, sommariamente, che, stando a tale indirizzo esegetico, esulano dal campo di applicazione della norma coloro che si avvalgono di colf e badanti (rispetto ai quali peraltro non pare siano applicabili i parametri delle esigenze organizzative e produttive, della sicurezza del lavoro e della tutela del patrimonio aziendale) e, secondo la tesi tradizionale, pure i soggetti che svolgono, anche mediante l’ausilio di dipendenti, una libera professione. A meno che, in quest’ultima ipotesi, si ritenga che la posizione del professionista sia assimilabile a quella dell’imprenditore e il relativo studio venga sostanzialmente parificato all’azienda nel significato delineato dall’art. 2555 c.c. (cfr. Cass. civ. Sez. II, 09/02/2010, n. 2860).
La conseguenza è che i soggetti che non rientrano nel portato applicativo del novellato art. 4 della L. n. 300 cit. non potrebbero venire sanzionati ai sensi dell’immutato art. 38 della L. n. 300 cit. (sanzione alternativa dell’ammenda o dell’arresto), qualora gli stessi si avvalgano, in assenza di accordo sindacale o di autorizzazione della DTL, di dispositivi di controllo potenzialmente incidenti sulla persona dei lavoratori.
Valga però osservare che ciò non significa che tali strumenti possano comunque essere impiegati indiscriminatamente dai predetti soggetti. Si ritiene, piuttosto, che l’eventuale utilizzo di tali dispositivi, da parte del datore non impresa, sia suscettibile di generare responsabilità civile, qualora vengano violati i principi di cui all’art. 11 del D.lgs. n. 196/03 posti, per l’appunto, a tutela della riservatezza della persona.
Sul piano ispettivo, la conseguenza di tale orientamento è che (esemplificando) un’associazione non lucrativa che impieghi, in assenza di autorizzazione o accordi sindacali, tali strumenti “dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”, non potrà essere destinataria di nessun provvedimento di prescrizione ex art. 15 del D.lgs. n. 124/04, proprio perché per costoro il fatto de quo non costituisce reato.

Le considerazioni espresse sono frutto esclusivo dell’opinione degli autori e non impegnano l’amministrazione di appartenenza

Ogni riferimento a fatti e/o persone è puramente casuale

 

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