Il convivente more uxorio non può essere considerato alla stregua di un mero ospite se l’amore finisce

Pubblicato il 22 marzo 2013 Nel caso di una unione libera tra due soggetti “che tuttavia abbia assunto, per durata, stabilità, esclusività e contribuzione, i caratteri di comunità familiare”, non può affermarsi che il rapporto del soggetto con la casa destinata ad abitazione comune, ma di proprietà dell'altro convivente, “si fondi su un titolo giuridicamente irrilevante quale l'ospitalità, anziché sul negozio a contenuto personale alla base della scelta di vivere insieme e di instaurare un consorzio familiare, come tale anche socialmente riconoscibile".

Così, il mero fatto del venir meno dell’amore tra i due “non consente al convivente proprietario di ricorrere alle vie di fatto per estromettere l’altro dall’abitazione”, in quanto il canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone, comunque, al legittimo titolare che intenda recuperare l’esclusiva disponibilità dell’immobile, “di avvisare il partner e di concedergli un termine congruo per reperire altra sistemazione”.

E’ quanto sancito dalla Corte di legittimità nel testo della sentenza n. 7214 del 21 marzo 2013.
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