Il licenziamento per scarso rendimento

Pubblicato il 06 agosto 2015

Con sentenza n. 14310 del 9 luglio 2015, la Corte di Cassazione ha confermato il proprio orientamento in ordine ai criteri giustificativi applicabili al licenziamento per scarso rendimento del dipendente. Nell’occasione, la Corte ha ricondotto la fattispecie in questione nell’ambito del licenziamento disciplinare, rilevando che lo scarso rendimento legittima il recesso, allorché l’attività del dipendente, posta al confronto con quanto prodotto dai suoi colleghi, si discosti significativamente dagli obiettivi aziendali. Il principio di diritto è anche pubblicato nella rubrica “Edicola” del 10/07/2015.

Preliminarmente vale osservare che, da un punto di vista lavorativo, il concetto di rendimento postula il corretto svolgimento delle mansioni che tipizzano la qualifica attribuita al dipendente, sia sul piano quantitativo sia su quello qualitativo.

In altre parole, il lavoratore per essere adempiente all’obbligazione lavorativa deve osservare, non tanto la diligenza del “buon padre di famiglia”, ma, per effetto del combinato disposto di cui all’art. 2014 e all’art. 1176 c.c., la perizia che viene richiesta all’uomo che svolge la specifica attività professionale, che nel caso concreto conforma la prestazione del dipendente medesimo.

Per misurare tale perizia, il datore di lavoro deve pregiudizialmente stabilire la soglia lavorativa minima che il dipendente è tenuto a raggiungere, in un determinato periodo di tempo, con la propria attività. Secondo tale prospettiva, infatti, nel contratto di lavoro deve essere dedotto, ab initio, quale sia la soglia di “produttività minima” e quella di “produttività ottimale” richiesta al lavoratore.

La giurisprudenza, in passato (Cass. civ. Sez. lavoro, 19/08/2000, n. 11001), così come nella presente occasione, per determinare tale soglia ha sempre utilizzato un criterio statistico-comparativo, prendendo cioè a parametro l’attività mediamente svolta, in un determinato lasso temporale, da altri lavoratori aventi le stesse mansioni.

Tuttavia, il mancato raggiungimento di tale soglia minima non è di per sé sufficiente ad integrare un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, dal momento che il lavoratore è obbligato a un “facere” e non a un risultato (Cass. civ. Sez. lavoro, 17/09/2009, n. 20050).

Il secondo step, allora, è quello di comparare il rendimento aziendale del lavoratore, che non ha raggiunto il minimo produttivo, con i risultati realizzati, nel medesimo periodo di riferimento, dai colleghi che svolgono le medesime mansioni. Ciò sull’assunto per cui il rendimento lavorativo non va valutato in termini assoluti, ma relativi: un lavoratore, in altre parole, va considerato produttivo se i suoi risultati sono uguali e/o superiori alla media degli altri colleghi.

Ove il confronto di tali dati faccia emergere, nel periodo di riferimento, una enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione e quanto effettivamente realizzato dal lavoratore, avuto altresì riguardo ai risultati globali conseguiti dai vari dipendenti, allora il datore di lavoro potrà licenziare il dipendente per scarso rendimento (Cass. civ. Sez. lavoro, 01/12/2010, n. 24361; Cass. civ. Sez. lavoro, 22/01/2009, n. 1632).

Occorre puntualizzare che tale sproporzione non deve esaurirsi in una tantum, ma occorre che il comportamento inadempiente del lavoratore persista nel tempo (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro n. 17371/2013).

Non si esclude tuttavia che lo scarso rendimento sia imputabile, non al lavoratore, ma alle dinamiche organizzative aziendali. Ciò significa che, affinché possa configurarsi la colpa del lavoratore nello svolgimento della prestazione richiesta, occorre che l’organizzazione lavorativa sia funzionale al raggiungimento degli obiettivi e ai programmi assegnati.

Se è vero che la diligenza richiesta al lavoratore implica anche una determinata intensità della prestazione, e quindi ritmi di lavoro sostenibili, non v’è dubbio infatti che le dinamiche organizzative aziendali, su cui si colloca la prestazione lavorativa dei dipendenti, devono rispettare la sicurezza, la libertà e la dignità dei lavoratori.

La lente si sposta così sul regime di ripartizione dell’onere della prova. Spetta al datore di lavoro l’onere di dimostrare:

  1. il mancato raggiungimento dell’obiettivo assegnato al lavoratore e conseguentemente il mancato superamento della c.d. “soglia minima di produttività”;

  2. l’unicità del risultato negativo ottenuto dal lavoratore, rispetto a quanto prodotto (in un arco temprale prolungato) dai propri colleghi;

  3. che tale inadempimento sia ascrivibile a un contegno colposo del lavoratore stesso. Quest’ultimo, dal canto suo, può contrastare l’attività asseverativa del datore di lavoro provando che l’inesatto adempimento è stato causato dalle cattive condizioni organizzative dell’azienda.

Altro aspetto che si evince dalla Sentenza della Corte in commento è la riconducibilità del licenziamento per scarso rendimento nell’alveo del recesso disciplinare.

Si tratta di un orientamento abbastanza consolidato, anche se non manca un indirizzo che qualifica la fattispecie de qua in termini di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (Cass. civ. Sez. lavoro, 20/11/2000, n. 14964; Cass. civ. Sez. lavoro, 05-03-2003, n. 3250). Tale indirizzo si fonda sull’assunto per cui la prestazione del dipendente che per inattitudine al lavoro - e quindi non per colpa - incide negativamente sulla produzione aziendale e sulle esigenze organizzative e funzionali dell’impresa, genera costi superiori rispetto all’utilità prodotta. Conseguentemente, tale attività può causare dissesti organizzativi all’impresa, al punto tale da renderla inutile o inservibile per il datore di lavoro e legittimare, pertanto, da parte di costui, l’esercizio del diritto di recesso per motivi economici.

L’orientamento, per quanto autorevole, non convince perché sussume surrettiziamente circostanze ascrivibili alla capacità lavorativa del dipendente e che, quindi, attengono alla sfera personale e alla dignità di quest’ultimo, nell’ambito di criteri economici impersonali, la cui determinazione e la cui applicazione, nel rispetto dei limite di cui all’art. 41 Cost., è sottratta al sindacato giurisdizionale. Tale operazione ermeneutica pare dettata dall’opportunità di legittimare forme di recesso, qual è per l’appunto il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, svincolate dall’osservanza delle garanzie di cui all’art. 7 della L. n. 300/70.

Ma vi è di più. Tali considerazioni sembra che acquistino ancor più pregnanza in ragione della differente tutela prevista, in base al D.lgs. n. 23/15, per il licenziamento disciplinare rispetto a quello per giustificato motivo oggettivo. Nelle imprese che occupano più di 15 dipendenti, il lavoratore licenziato per ragioni disciplinari può ancora ambire, se pur in ridotte ipotesi, a ottenere la tutela reintegratoria. Diversamente, la tutela del lavoratore espulso per motivi economici resta circoscritta al solo indennizzo economico.

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