In materia disciplinare non trova applicazione il principio di stretta tipicità dell'illecito

Pubblicato il 02 gennaio 2014 Con la sentenza n. 27996 del 16 dicembre 2013, le Sezioni unite civili della Corte di cassazione hanno respinto il ricorso promosso da un avvocato contro la sanzione disciplinare della censura irrogatagli dall'Ordine di appartenenza e poi confermata dal Consiglio nazionale forense, per essere venuto meno ai doveri di probità e correttezza in quanto aveva trasmesso, a mezzo di posta elettronica indirizzata ad un numero imprecisato di colleghi non abilitati, una comunicazione con la quale proponeva una convenzione annuale ai sensi della quale gli interessati avrebbero potuto ottenere la rappresentanza davanti alla Corte di cassazione e presso il Tribunale.

A fronte delle doglianze avanzate dal legale, la Suprema corte ha evidenziato come, nella materia disciplinare forense, il principio di stretta tipicità dell'illecito, proprio del diritto penale, non trova applicazione; ed infatti nell'ambito di detta materia “non è prevista una tassativa elencazione dei comportamenti illeciti non conformi, ma solo quella dei doveri fondamentali, tra cui quelli di probità, dignità e decoro (articolo 5 codice deontologico forense) lealtà e correttezza (articolo 6), ai quali l'avvocato deve improntare la propria attività, sia professionale sia non professionale (articolo 5 II), la cui violazione, da accertarsi secondo le concrete modalità del caso, dà luogo a procedimento disciplinare”. Anche il tentativo di compiere un atto professionalmente scorretto – continuano i giudici di legittimità - “in quanto lesivo dell'immagine dell'avvocato, costituisce di per sè una scorrettezza, come tale disciplinarmente rilevante”.
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