Lavoratore oggetto di mobbing e poi licenziato? Reintegrazione, indennità risarcitoria e risarcimento del danno.
Con sentenza n. 27913 del 4 dicembre 2020, la Corte di cassazione ha confermato la statuizione con cui i giudici di merito, nel dichiarare l’illegittimità del licenziamento irrogato ad una lavoratrice, avevano disposto:
Rispetto a quest’ultima statuizione, i giudici di secondo grado avevano ritenuto rilevante che il legale rappresentante della società datrice di lavoro fosse stato messo al corrente dei reiterati episodi mobbizzanti subiti dalla dipendente ma non avesse voluto indagare a fondo la questione, né attuare provvedimenti disciplinari idonei a tutelare la situazione problematica prospettatagli dalla medesima lavoratrice.
In particolare, era risultato che la prestatrice fosse destinataria, quotidianamente, di plurimi rimproveri ed offese da parte di alcuni colleghi e ciò, di per sé, concretizzava il requisito oggettivo della fattispecie del mobbing.
Quanto al requisito soggettivo, esso era risultato provato dall’offensività dei termini utilizzati e delle accuse assolutamente infondate mosse nei confronti della lavoratrice, suscettibili di evidenziare la volontà di prevaricazione dei suddetti dipendenti.
Le conclusioni della decisione di secondo grado – impugnate in sede di legittimità dalla società datrice di lavoro - sono state completamente confermate dalla Suprema corte, secondo la quale i giudici di gravame avevano compiutamente ed analiticamente esaminato tutte le risultanze istruttorie poste a fondamento della decisione, tra le quali la Ctu con cui era stato riconosciuto che la lavoratrice avesse subito un danno da mobbing, corrispondente ad una inabilità temporanea per complessivi 90 giorni.
Nella sentenza, gli Ermellini hanno in particolare sottolineato come se anche parte datoriale, nella specie, non si fosse resa protagonista diretta delle condotte vessatorie, la stessa non poteva andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 c.c.
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