Patto di non concorrenza nullo solo se i limiti territoriali non sono chiari e determinabili. Da valutare anche se il compenso risulta proporzionato al sacrificio richiesto al lavoratore.
Quest'ultimo deve essere messo nella condizione di compiere scelte professionali consapevoli.
Con l’ordinanza n. 13050 del 16 maggio 2025, la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro si è nuovamente pronunciata sui requisiti di validità del patto di non concorrenza nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, soffermandosi in particolare sulla determinabilità dell’ambito territoriale e sulla proporzionalità del corrispettivo pattuito.
Il giudizio ha avuto origine da una controversia relativa alla validità di un patto di non concorrenza sottoscritto da una ex lavoratrice del settore bancario.
Il patto prevedeva in sintesi:
La Corte d’Appello, in secondo grado, aveva ritenuto il patto valido, considerando congruo il compenso e sufficientemente determinati i limiti soggettivi, oggettivi e territoriali indicati.
Avverso tale sentenza, la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, lamentando, tra i motivi, l’indeterminatezza ed indeterminabilità dei confini territoriali previsti, in violazione dell’art. 2125 c.c.
Secondo la ricorrente:
La Corte d’Appello, a suo avviso, non avrebbe esaminato correttamente tale profilo.
La Suprema corte ha ritenuto fondato il motivo di doglianza della dipendente.
Nella sua disamina, la Cassazione ha ricordato che le clausole di non concorrenza hanno una duplice finalità:
Tale equilibrio è essenziale per tutelare sia l’interesse dell’impresa sia i diritti del lavoratore (Cass. n. 9790/2020; Cass. n. 24662/2014).
La Corte ha altresì precisato che il legislatore, per tutelare la libertà del lavoratore dopo la cessazione del rapporto, ha introdotto una disciplina specifica del patto di non concorrenza nel lavoro subordinato, distinta da quella generale dell’art. 2596 c.c.
Tale disciplina distingue nettamente il lavoratore da altri soggetti destinatari di analoghi divieti, al fine di evitare che la libertà contrattuale possa comprimere in misura eccessiva la sua capacità professionale e le potenzialità reddituali.
Per questo motivo, l’art. 2125, comma 1, c.c. subordina la validità del patto di non concorrenza a precisi requisiti di forma, corrispettivo, oggetto, durata e ambito territoriale, sanzionando la loro violazione con la nullità del patto.
Per rispettare quanto previsto dall’art. 2125 del codice civile, quindi, i limiti relativi all’oggetto, alla durata e all’ambito territoriale di un patto di non concorrenza devono essere chiaramente stabiliti — o almeno facilmente individuabili — già al momento della sua sottoscrizione. Questo è necessario affinché entrambe le parti possano esprimere un consenso consapevole e informato al momento della stipula del contratto.
Limite territoriale ben precisato
Per quanto riguarda i limiti territoriali, è richiesto che il lavoratore abbia piena consapevolezza, già al momento della sottoscrizione, dell’area geografica cui si estende il patto di non concorrenza. Solo in tal modo il lavoratore può compiere scelte professionali consapevoli.
La Corte di Cassazione, ciò posto, ha ritenuto non condivisibile la valutazione della Corte d’Appello, che aveva considerato i limiti territoriali del patto di non concorrenza in esame chiari e precisi, basandosi su una lettura ex post.
Nella specie, il patto prevedeva un ambito territoriale variabile, estendibile non solo alla Regione Toscana, ma anche ad altre regioni e province entro 250 km dalla sede di lavoro, in funzione di eventuali trasferimenti.
Tale impostazione rendeva il vincolo modificabile unilateralmente dal datore di lavoro, compromettendo la possibilità per il lavoratore di conoscere ex ante l’esatta estensione dell’obbligo.
Il contenuto del patto di non concorrenza, infatti, evidenziava che l’area geografica del divieto era soggetta a modifiche e ampliamenti successivi, in base all’assegnazione del lavoratore.
A seguire un'ulteriore precisazione della Cassazione: anche qualora il limite territoriale del patto fosse ritenuto determinato o determinabile al momento della stipula, sarebbe comunque necessario valutare la congruità e proporzionalità del compenso in rapporto alla concreta limitazione imposta alla libertà lavorativa del dipendente, tenendo conto anche della facoltà del datore di lavoro di ampliare unilateralmente l’ambito geografico del vincolo.
Anche da questo punto di vista, la Corte ha ritenuto che la decisione impugnata si discostasse dall’orientamento consolidato di legittimità, secondo cui, per valutare la validità di un patto di non concorrenza, il corrispettivo pattuito – in quanto voce distinta dalla retribuzione ordinaria – deve possedere i requisiti di determinatezza o determinabilità richiesti per l’oggetto della prestazione ai sensi dell’art. 1346 del codice civile.
Inoltre, anche se il compenso risulta determinato o determinabile, è necessario, ai sensi dell’art. 2125 c.c., verificarne l’adeguatezza: esso non deve essere simbolico, né manifestamente iniquo o sproporzionato rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla conseguente riduzione della sua capacità di guadagno.
Tale valutazione deve prescindere dall’utilità che la clausola comporta per il datore di lavoro o dal suo ipotetico valore di mercato.
Il patto, in ogni caso, non può essere così ampio da comprimere in modo eccessivo la professionalità del lavoratore e comprometterne ogni prospettiva reddituale. In presenza di uno squilibrio economico rilevante, il patto è da ritenersi nullo.
La Corte di Cassazione, in conclusione, ha accolto il ricorso della lavoratrice e cassato la sentenza impugnata, disponendo il rinvio alla Corte d’Appello, in diversa composizione, affinché proceda a un nuovo esame della controversia nel rispetto dei principi di diritto enunciati.
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