L’accesso a misure complesse di integrazione sociale e lavorativa, come il Reddito di cittadinanza, può essere subordinato a un requisito di residenza pregressa, ma entro limiti ragionevoli e proporzionati.
Il requisito dei 10 anni è arbitrario, discriminatorio e privo di correlazione con le finalità della misura. Per questo motivo, risulta congruo sostituirlo con un requisito di 5 anni, in coerenza con i principi costituzionali e con il diritto dell’Unione Europea.
E' quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 31 depositata il 20 marzo 2025.
La Consulta, in particolare, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del Decreto legge n. 4/2019 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del Reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia da almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo.
La disposizione era stata contestata in un giudizio sollevato dalla Corte d’appello di Milano, che si trovava a decidere sul ricorso di cittadini dell’Unione europea ai quali era stato negato l’accesso alla misura, pur in possesso di tutti gli altri requisiti previsti dalla normativa, per mancanza del requisito della residenza decennale.
Il giudice rimettente aveva prospettato la violazione dell’art. 3 della Costituzione, per irragionevolezza e disparità di trattamento, nonché degli artt. 11 e 117, primo comma, in relazione a specifiche disposizioni del diritto dell’Unione europea, tra cui l’art. 21 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 24 della direttiva 2004/38/CE e l’art. 7 del regolamento (UE) n. 492/2011.
Lamentava, in particolare, che il requisito in questione introducesse una discriminazione indiretta nei confronti dei cittadini di altri Stati membri, oggettivamente meno in grado di soddisfare la condizione di una permanenza decennale sul territorio nazionale.
Nel delineare il proprio ragionamento, la Corte ha ribadito l’interpretazione costante della giurisprudenza costituzionale sulla natura del Reddito di cittadinanza, già espressa in precedenti decisioni, in particolare nelle sentenze n. 19 del 2022 e n. 126 del 2021.
Il Reddito di cittadinanza è qualificato non come una mera prestazione assistenziale fondata esclusivamente sul bisogno economico, ma come uno strumento complesso e condizionato, finalizzato all’inclusione sociale e all’inserimento nel mercato del lavoro.
L’erogazione del beneficio economico è subordinata alla partecipazione del beneficiario a percorsi personalizzati, i cosiddetti “Patti per il lavoro” o “Patti per l’inclusione sociale”, che prevedono obblighi specifici e attività connesse alla ricerca attiva di un’occupazione o al rafforzamento delle competenze.
Proprio questa caratterizzazione giuridica, fondata su un modello di responsabilizzazione e integrazione, distingue il Reddito di cittadinanza da altre prestazioni di assistenza sociale che rispondono a bisogni primari indifferibili e che prescindono da condizioni ulteriori.
I giudici costituzionali hanno così evidenziato che la complessità e la finalità attiva del RdC giustificano, in linea di principio, l’imposizione di requisiti di radicamento territoriale, nella misura in cui tali requisiti risultino proporzionati e funzionali al raggiungimento degli obiettivi della misura.
Dopo aver confermato la possibilità per il Legislatore di subordinare l’accesso al Reddito di cittadinanza a condizioni che garantiscano una stabile relazione del richiedente con il territorio nazionale, la Corte Costituzionale ha valutato il requisito specifico della residenza in Italia per almeno dieci anni, dei quali due in modo continuativo.
In questo contesto, è stato considerato che la previsione del lungo periodo di residenza, pur formalmente applicabile a tutti i richiedenti, comporta nella prassi un effetto discriminatorio indiretto nei confronti dei cittadini stranieri, in particolare europei, che difficilmente possono soddisfare una condizione così gravosa, anche quando siano perfettamente integrati nel tessuto sociale e abbiano un regolare permesso di soggiorno.
La Consulta ha riconosciuto che il Legislatore può legittimamente perseguire finalità legate al contenimento della spesa pubblica e alla salvaguardia della sostenibilità finanziaria del sistema, nonché alla verifica dell’effettivo radicamento del beneficiario nel contesto economico e sociale nazionale.
Tuttavia, ha affermato che tali finalità devono essere perseguite attraverso misure che rispettino i principi costituzionali di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità.
Alla luce di tali principi, la Corte Costituzionale ha giudicato sproporzionato il termine decennale previsto dalla norma impugnata, osservando che la durata della residenza richiesta eccede quanto necessario per verificare il radicamento territoriale.
Inoltre, ha sottolineato che, a differenza di altre prestazioni assistenziali, come l’assegno sociale, il Reddito di cittadinanza non è correlato a un pregresso contributo sociale, bensì orientato al futuro reinserimento attivo del beneficiario.
Tenendo conto anche degli sviluppi normativi successivi all’introduzione del Reddito di cittadinanza, in particolare la sostituzione della misura con l’Assegno di inclusione (che prevede un requisito di cinque anni di residenza, di cui gli ultimi due continuativi), la Corte ha ritenuto congruo fissare in cinque anni il limite temporale di residenza necessario per accedere al beneficio.
La decisione si fonda sulla necessità di ridurre al minimo l’intervento correttivo rispetto alla discrezionalità del legislatore, individuando nel quinquennio un punto di equilibrio già presente nel sistema normativo interno e coerente con le disposizioni dell’Unione europea.
Di conseguenza, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disposizione nella parte in cui richiede la residenza “per almeno 10 anni”, sostituendola con la formula “per almeno 5 anni”.
La Consulta ha così ricondotto il requisito entro i limiti della proporzionalità e della ragionevole correlazione con le finalità della misura, assicurando al tempo stesso la coerenza con il principio di uguaglianza e con il divieto di discriminazioni indirette.
Nel corpo della sentenza, la Corte Costituzionale ha richiamato la decisione della Corte di giustizia UE del 29 luglio 2024 (cause riunite C-112/22 e C-223/22) come elemento utile a valutare la sproporzione del requisito di residenza decennale previsto per il Reddito di cittadinanza.
Pur non aderendo alla qualificazione della misura come prestazione di assistenza sociale, accolta dalla Corte di giustizia sulla base dell’interpretazione del giudice del rinvio, la Corte italiana riconosce che la giurisprudenza europea conferma l’eccessiva onerosità del requisito e individua nella soglia dei cinque anni un parametro idoneo a garantire il radicamento territoriale.
Tale riferimento rafforza l’illegittimità costituzionale della previsione normativa censurata, in quanto priva di ragionevole correlazione con le finalità del RdC e lesiva del principio di eguaglianza, anche alla luce del diritto antidiscriminatorio dell’Unione.
La Corte costituzionale, con il suo intervento, ha inteso riequilibrare la disciplina sull’accesso al Reddito di cittadinanza (abrogato, si rammenta, a decorrere dal 1° gennaio 2024).
Pur riconoscendo la legittimità di criteri selettivi ispirati al radicamento territoriale, la Corte Costituzionale ha affermato che essi devono essere giustificati e proporzionati rispetto alle finalità dell’intervento pubblico.
Il requisito decennale, non essendo correlato in modo ragionevole alla natura e agli obiettivi del RdC, è stato giudicato in contrasto con l’art. 3 della Costituzione.
La rideterminazione in cinque anni del periodo minimo di residenza costituisce, secondo la Corte, un criterio idoneo a tutelare sia l’equilibrio finanziario del sistema, sia l’accesso equo e non discriminatorio alla misura da parte di tutti i soggetti legittimati, compresi i cittadini dell’Unione europea stabilmente presenti in Italia.
Sintesi del caso | La Corte d’appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale sul requisito della residenza decennale previsto per accedere al Reddito di cittadinanza. Il caso riguardava cittadini dell’Unione europea ai quali era stato negato il beneficio per mancato possesso di tale requisito, nonostante il possesso degli altri presupposti. |
Questione dibattuta | La legittimità del requisito di almeno 10 anni di residenza in Italia, di cui gli ultimi due continuativi, richiesto dall’art. 2, comma 1, lett. a), n. 2), del D.L. n. 4/2019, in relazione al principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) e al diritto antidiscriminatorio dell’Unione europea. |
Soluzione della Corte Costituzionale | La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui richiedeva la residenza decennale, sostituendola con un termine di cinque anni, giudicato più proporzionato e coerente con la finalità della misura e con i principi costituzionali ed europei. |
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