Reati tributari. Sequestro non ridotto dopo accordi conciliativi

Pubblicato il 17 luglio 2019

E’ legittimo che il giudice penale, ai fini dell’adozione o del mantenimento del sequestro preventivo, si discosti, sulla base di elementi di fatto e con congrua motivazione, dalla quantificazione del profitto del reato operata sulla base di accordi conciliativi.

Lo ha ricordato la Corte di cassazione nel testo della sentenza n. 31002 del 16 luglio 2019, nel confermare il rigetto di una domanda di riduzione concernente un sequestro preventivo, disposto nell’ambito di un procedimento penale per evasione fiscale.

Evasione fiscale. Domanda di riduzione del sequestro 

Gli indagati avevano chiesto la riduzione del sequestro in ragione di tre accordi conciliativi nel frattempo intervenuti con l’Amministrazione finanziaria.

In particolare, avevano domandato di scomputare la somma corrispondente alla differenza tra la maggiore imposta inizialmente determinata e l’importo oggetto di rideterminazione a seguito delle citate procedure conciliative e in sede di adesione.

L’istanza, tuttavia, era stata disattesa dal GIP in quanto, a suo dire, non si poteva attribuire alcun rilievo ai sopravvenuti accordi conciliativi, potendosi disporre la riduzione della somma in sequestro solo a fronte dell’effettivo pagamento delle imposte evase.

Dopo che anche il Tribunale del riesame aveva confermato questa decisione, gli indagati si erano rivolti alla Corte di legittimità, lamentando un’errata ricostruzione, da parte dell’organo giudicante, della natura giuridica degli accordi conciliativi nonché una mancanza di motivazione.

Sequestro preventivo confermato con congrua motivazione

Anche in questa sede, però, le loro doglianze non hanno trovato accoglimento.

Gli Ermellini, in particolare, hanno ritenuto che l’ordinanza impugnata si confacesse al principio di diritto già espresso dai giudici di legittimità, secondo cui il giudice penale, sulla scorta di elementi di fatto, può discostarsi dalla quantificazione del profitto che risulti dalla conclusione di accordi conciliativi con il Fisco.

In detta ipotesi - ha precisato la Suprema corte - il giudice deve dare congrua motivazione dell’esercizio di tale autonomo potere.

Diversamente ragionando - si legge, altresì, nella decisione - si perverrebbe all’introduzione di una pregiudiziale tributaria non prevista nell’ordinamento giuridico.

E nella vicenda esaminata era stato dato conto, con argomentazioni pienamente conformi ai principi più volte richiamati dalla Cassazione, degli elementi di fatto in ragione dei quali il giudice aveva deciso di discostarsi dalla quantificazione del profitto, per come risultante dalla conclusione di accordi conciliativi con l’Agenzia delle entrate.

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