Ricorso abusivo al credito punito in caso di fallimento

Pubblicato il 28 ottobre 2014 La Corte di cassazione, con la sentenza n. 44857 del 27 ottobre 2014, ha evidenziato come il ricorso abusivo al credito - la condotta, ossia, che punisce il ricorso al credito con dissimulazione del dissesto o dello stato d'insolvenza - richieda, per la relativa configurabilità, che il soggetto al quale esso viene addebitato venga, successivamente, dichiarato fallito.

Ed infatti, nonostante l'articolo 218 della Legge fallimentare non faccia menzione della necessità della dichiarazione di fallimento, ciò che rileva è sia il dato letterale, ai sensi del quale la norma è inclusa nel capo I del Titolo VI del Regio decreto n. 267/1942, intitolato “Reati commessi dal fallito”, sia l'argomento sistematico.

Con riferimento a detto ultimo aspetto, in particolare, i giudici di legittimità segnalano gli articoli 222, 223 e 225 della Legge fallimentare, che richiedono il fallimento della società “senza che sia dato intendere perché la rafforzata tutela del singolo creditore dell'imprenditore individuale, espressa dall'orientamento qui avversato, non sia assicurata anche nel caso di imprenditori collettivi”; l'articolo 219, comma secondo, n. 1 della Legge fallimentare che considera unitariamente le fattispecie di cui agli articoli 216, 217 e 218 della Legge fallimentare, palesando, in tal modo, una base offensiva comune dei vari reati, “colta nell'interesse dei creditori concorsuali a non vedere le proprie ragioni pregiudicate da atti che riducono la garanzia patrimoniale”; l'articolo 221 della Legge fallimentare che, anche se solo su un piano storico, “rivela il presupposto inespresso del legislatore di sanzionare le condotte descritte solo in caso di dichiarazione di fallimento”.
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