Riparazione per ingiusta detenzione. Causa ostativa va motivata

Pubblicato il 21 novembre 2017

In tema di riparazione per ingiusta detenzione, il giudice della riparazione non deve valutare l’assoluzione dell’imputato come fosse giudice dell’appello – e decidere se quest’ultimo vi abbia dato causa con dolo o colpa grave – ma deve invece valutare il comportamento dell’interessato alla luce del quadro indiziario su cui si è fondato il titolo cautelare; sempre che gli elementi indiziari non siano stati dichiarati assolutamente inutilizzabili, ovvero siano stati esclusi o neutralizzati, nella loro valenza, nel giudizio di assoluzione.

E’ questo il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione, terza sezione penale, annullando l’ordinanza con cui la Corte d’appello aveva respinto l’istanza di riparazione presentata da un imputato, per ingiusta detenzione subita dapprima nella forma della custodia cautelare e poi degli arresti domiciliari.

L’ordinanza di rigetto della Corte territoriale era motivata – pur essendo stato l’imputato assolto dai reati – per aver quest’ultimo concorso a dare causa, con colpa grave, alla misura cautelare, avendo intrattenuto frequentazioni abituali con un noto pregiudicato (l’unico poi effettivamente condannato per i reati contestati al richiedente).

Avverso il provvedimento, l’imputato si è tuttavia opposto, con censura ritenuta fondata in sede di legittimità. Per gli Ermellini, in particolare, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la condizione ostativa al riconoscimento dell’indennizzo – rappresentata dall’aver il richiedente dato causa all’ingiusta carcerazione – può essere integrata anche da comportamenti extraprocessuali gravemente colposi quali le frequentazioni ambigue con soggetti gravati da precedenti penali o coinvolti in traffici illeciti; purché, tuttavia, il giudice della riparazione fornisca adeguata motivazione della idoneità di detti comportamenti ad essere interpretati come indizi di complicità in rapporto al tipo ed alla qualità dei collegamenti con le suindicate persone, così da poter essere quantomeno posti in una relazione di concausalità con il provvedimento restrittivo adottato.

Una motivazione che, tuttavia – si legge nella sentenza n. 52645 del 20 novembre 2017 - non è stata affatto fornita dalla Corte d’appello nel provvedimento gravato, la quale si è limitata ad elencare gli elementi posti alla base della misura cautelare, senza invece dar conto delle ragioni per cui le frequentazioni sospette dell’imputato non potessero trovare giustificazione in rapporti di amicizia ma dovessero, al contrario, qualificarsi come ambigue, tali da essere interpretate come indizi di complicità nei reati contestati.

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