Per la vicenda dell'Ilva di Taranto, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto l'Italia colpevole per le violazioni degli articoli 8 e 13 della Cedu; violazioni, queste, ritenute tali di giustificare, di per sé, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale subito dai ricorrenti, dei cittadini residenti nella città pugliese.
All'origine della pronuncia vi erano due ricorsi (n. 54414/13 e n. 54264/15) promossi contro la Repubblica italiana.
I ricorrenti avevano denunciato di aver subito degli effetti nocivi, alla loro salute e all'ambiente, dalle emissioni provenienti dall'Ilva di Taranto, società specializzata nella produzione di acciaio.
Il prolungato inquinamento derivato dall'Ilva, ossia, aveva pregiudicato il loro diritto alla vita nonché il diritto di poter vivere in un ambiente salubre. Gli stessi avevano dedotto anche la violazione del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva.
In particolare, avevano allegato che l'inquinamento provocato dalle emissioni nocive della centrale di Ilva costituisse una certezza riconosciuta dalle autorità pubbliche ed avevano prodotto, a riprova di ciò, anche alcuni certificati medici attestanti le malattie contratte da loro stessi o dai loro cari.
Orbene, secondo la Corte, le numerose relazioni e studi scientifici depositati attestavano l'esistenza di un nesso causale tra l'attività la società produttrice e la compromissione della situazione ambientale.
In particolare, è stato fatto riferimento allo studio più recente in questa materia, ovvero al rapporto ARPA 2017, nel quale era accertato il citato nesso causale, attestante la permanenza di uno stato di salute critica nell'area, ad "alto rischio ambientale " dove insisteva l'Ilva e dove il tasso di mortalità e ospedalizzazione per determinate condizioni oncologiche, cardiovascolari, respiratorie e digestive era superiore alla media regionale.
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