La Corte di Cassazione interviene sul computo del TFR ribadendo l’onnicomprensività della retribuzione e l’obbligo di una esclusione espressa nel CCNL: cassata la decisione della Corte d’Appello per mancata verifica della natura continuativa delle indennità percepite.
L’ordinanza n. 30331 del 17 novembre 2025 della Corte di Cassazione – Sezione Lavoro interviene nuovamente sul tema, da tempo oggetto di contenzioso, relativo alla determinazione della base di calcolo del Trattamento di Fine Rapporto (TFR) e alla computabilità delle indennità erogate durante il rapporto di lavoro.
Il caso riguardava diversi ex dipendenti di una società operante nel settore autostradale che avevano richiesto l’inclusione, nel TFR, di una serie di voci retributive quali lavoro supplementare, richiamo in servizio, maggiorazioni per prestazioni eccedenti, trattamenti economici di trasferta e indennità per turni sfalsati.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso dei lavoratori, cassando la sentenza della Corte d’Appello di Roma che aveva escluso tutte le voci richieste, ritenendo sufficiente la presenza, nel CCNL Autostrade e Trafori, di un elenco di indennità considerate utili ai fini del TFR. Tale impostazione è stata giudicata erronea.
I giudici di legittimità hanno affermato che l’art. 22 del CCNL in esame individua gli elementi “standard” della retribuzione, ma non contiene alcuna esclusione implicita delle altre indennità percepite dal lavoratore.
Per escludere una voce dal computo del TFR è necessario che il contratto collettivo contenga una previsione espressa e univoca in tal senso, condizione che nella fattispecie non ricorreva.
La Corte ha inoltre censurato l'erronea attribuzione ai lavoratori dell’onere di individuare la norma collettiva che imponesse l’inclusione delle voci nel TFR.
Richiamando la propria giurisprudenza consolidata, ha ribadito che, ai sensi dell’art. 2120 del Codice civile, la retribuzione utile al TFR comprende tutte le somme aventi natura non occasionale e non riconducibili a rimborso spese.
L’esclusione di una o più voci dalla base retributiva - si legge nella decisione - "costituendo deroga all’indicato principio, presuppone in primo luogo una volontà della norma collettiva che neghi espressamente l’inclusione ed esige, poi, una specifica prova di questa negazione da parte di colui che la invoca".
Pertanto, è il datore di lavoro a dover dimostrare l’esistenza di una clausola collettiva derogatoria che escluda la computabilità di specifiche indennità.
Gli Ermellini, ciò posto, hanno rilevato l’omesso esame, da parte della Corte d’Appello, di tutte le voci retributive dedotte in giudizio.
Era mancata l’indagine “ex post” sulla natura delle somme corrisposte, necessaria per verificare se fossero state erogate in maniera continuativa e con funzione corrispettiva rispetto alla prestazione.
Dalla pronuncia emergono tre principi volti ad orientare la corretta applicazione dell’art. 2120 c.c.:
La sentenza è stata pertanto cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Roma, che dovrà riesaminare tutte le voci oggetto di domanda applicando i principi indicati dalla Suprema Corte.
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