Anticipazione indebita del Tfr in busta paga, quali conseguenze?

Pubblicato il 23 aprile 2025

Il trattamento di fine rapporto rappresenta una componente fondamentale della retribuzione differita che spetta al lavoratore subordinato al termine del rapporto di lavoro, indipendentemente dalla causa della cessazione.

Introdotto con l’obiettivo di tutelare il lavoratore garantendogli una somma accantonata nel corso degli anni di attività, il Tfr ha assunto negli anni anche un'importante valenza previdenziale, tanto da essere assoggettato a regole specifiche in materia di gestione, anticipazione e destinazione.

Ma cosa succede in caso di anticipazione indebita del Tfr in qusta paga? Quali le conseguenze?

A queste domande risponde l’ispettorato nazionale del lavoro con la nota n. 616 del 3 aprile 2025.

Prima di esaminarne il contenuto, una breve panoramica dell’istituto del Tfr.

Funzione e finalità

Il Tfr ha, come accennato, una funzione previdenziale e di garanzia economica: costituisce una forma di risparmio forzoso accumulato dal datore di lavoro per conto del dipendente.

Si tratta di un istituto volto ad offrire dunque un sostegno economico al lavoratore in un momento particolarmente delicato quiale è la fine del rapporto di lavoro, spesso coincidente con situazioni di transizione professionale o personale.

La finalità del Tfr è quindi duplice:

  1. fornire un supporto economico post-occupazionale, soprattutto in assenza di un’immediata ricollocazione lavorativa;
  2. costituire un fondo accumulato nel tempo, che può eventualmente essere destinato anche a finalità diverse (es. previdenza complementare), ma solo nei limiti previsti dalla normativa vigente.

Base normativa: l’articolo 2120 del codice civile

Il riferimento normativo centrale è rappresentato dall’articolo 2120 del codice civile, composto di più commi, ciascuno dei quali stabilisce:

In particolare, l’art. 2120 c.c. stabilisce che per ogni anno di servizio il lavoratore ha diritto a un importo pari, di norma, a una frazione della retribuzione utile dell’anno (circa una mensilità), rivalutato annualmente secondo un indice Istat maggiorato di una quota fissa. 

Anticipazione del Tfr: limiti e condizioni

L’anticipazione del Tfr, contrariamente a quanto spesso si ritiene, non è un diritto illimitato, ma un’eccezione alla regola generale secondo cui le somme accumulate devono essere erogate solo alla cessazione del rapporto di lavoro.

Il comma 6 dell’art. 2120 c.c. prevede che il lavoratore con almeno otto anni di anzianità presso lo stesso datore di lavoro possa richiedere un’anticipazione per una sola volta nel corso del rapporto e solo per specifiche esigenze:

In ogni caso, l’importo richiesto non può superare il 70% del Tfr maturato fino a quel momento.

Il datore di lavoro è tenuto a rispondere alla richiesta in funzione delle disponibilità annue, che non possono superare il 10% degli aventi diritto e il 4% del totale dei dipendenti.

Deroghe tramite contrattazione collettiva o accordi individuali

L’ultimo comma dell’art. 2120 c.c. apre tuttavia alla possibilità di deroghe migliorative, stabilendo che le condizioni per l’anticipazione possano essere modificate in senso più favorevole al lavoratore dalla contrattazione collettiva o, in via residuale, da patti individuali.

In tale contesto, gli accordi collettivi (nazionali o aziendali) possono:

Analogamente, un accordo individuale può legittimare una forma di anticipazione, ma solo se stipulato in modo esplicito e documentato e purché non leda diritti indisponibili del lavoratore o violi norme imperative.

È importante precisare, e questo è il nodo centrale oggetto della nota dell’ispettorato nazionale del lavoro, che l’anticipazione continuativa e mensile del Tfr al di fuori dei casi previsti dalla legge o dalla contrattazione non rientra tra le forme legittime di accesso a tale istituto.

In assenza di una base normativa o pattizia, tali erogazioni sono quindi da considerarsi maggiorazioni retributive ordinarie, con conseguenti obblighi contributivi e possibili contestazioni in sede ispettiva, come chiarito dalla nota n. 616/2025.

Ruolo della contrattazione collettiva e dei patti individuali

Il rispetto della normativa sul Tfr richiede anche un’attenta analisi dei contratti collettivi applicati e degli eventuali accordi individuali stipulati con i dipendenti che, perché siano validi, devono:

Limiti dei patti individuali

I patti individuali, in assenza di contrattazione collettiva, possono derogare dunque solo in senso migliorativo alle condizioni previste dalla legge. Non possono, tuttavia:

Qualunque accordo individuale che contrasti con tali principi è da considerarsi inefficace e potenzialmente illecito, con conseguenti responsabilità per il datore di lavoro.

Il regime sperimentale introdotto dalla legge n. 190/2014

Tra le misure straordinarie introdotte per sostenere il potere d'acquisto dei lavoratori e favorire i consumi interni, il legislatore ha però previsto, con la legge n. 190/2014 (legge di stabilità 2015), un regime sperimentale di erogazione mensile del Tfr in busta paga.

Tale misura, introdotta in un contesto di crisi economica e ridotta capacità di spesa delle famiglie, era finalizzata a offrire una liquidità immediata ai lavoratori subordinati del settore privato.

Il regime in questione, come stabilito dall’art. 1, commi da 26 a 34 della legge, prevedeva la possibilità per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato di scegliere se ricevere in busta paga, a partire dal 1° marzo 2015, la quota maturanda del trattamento di fine rapporto in luogo del suo tradizionale accantonamento.

Questa opzione, nota anche come “quota integrativa della retribuzione” (Qu.I.R.), aveva tuttavia un carattere eccezionale e temporaneo, con scadenza fissata al 30 giugno 2018: dopo tale data, l’erogazione mensile del Tfr in busta paga non è più ammessa, salvo specifiche previsioni contrattuali o normative.

La fine del regime sperimentale e i dubbi interpretativi successivi

Con la scadenza del regime sperimentale al 30 giugno 2018, il quadro normativo è tornato a fare esclusivo riferimento dunque all’articolo 2120 del codice civile, che prevede l’accantonamento del Tfr e ne disciplina l’erogazione solo al termine del rapporto lavorativo o, in casi eccezionali, mediante anticipazione su richiesta del lavoratore.

Tuttavia, negli anni successivi, alcune prassi aziendali o accordi non formalizzati hanno continuato a operare l’erogazione mensile del Tfr in busta paga anche in assenza di un’esplicita base normativa o contrattuale, generando dubbi interpretativi tanto tra gli operatori quanto tra gli ispettori del lavoro.

In tale contesto si colloca la nota n. 616 del 3 aprile 2025, con cui l’ispettorato nazionale del lavoro fornisce un parere interpretativo in risposta a un quesito pervenuto dall’Ispettorato d’area metropolitana di Milano, per il tramite della direzione interregionale del lavoro del nord.

Il quesito dell’ispettorato di Milano

Il caso oggetto di attenzione riguarda la legittimità dell’anticipazione del Tfr mediante erogazione mensile post 2018, al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 2120 c.c. o dalla contrattazione collettiva. In particolare, si è chiesto:

L’Ispettorato ha così chiesto l’intervento dell’ufficio legislativo del ministero del lavoro per fornire un’interpretazione autentica che chiarisse la qualificazione giuridica delle somme erogate e le responsabilità del datore di lavoro in caso di violazione.

Risposta del ministero del lavoro: richiamo alla funzione previdenziale del Tfr

Nella risposta, recepita nella nota n. 616/2025, il ministero ha richiamato con fermezza il principio secondo cui il Tfr ha natura previdenziale, essendo destinato a garantire al lavoratore un sostegno economico alla cessazione del rapporto.

La funzione del Tfr, come indicato dalla normativa e dalla giurisprudenza consolidata, non è assimilabile a quella della retribuzione corrente.

Di conseguenza, ogni erogazione mensile in busta paga del Tfr, se non giustificata da una specifica previsione normativa o da un accordo collettivo o individuale, è da considerarsi illegittima.

Indisponibilità delle quote di Tfr accantonate nel Fondo tesoreria Inps

Un aspetto fondamentale evidenziato riguarda il regime applicabile alle aziende con almeno cinquanta dipendenti, obbligate dal 1° gennaio 2007 a versare il Tfr maturando al Fondo di tesoreria Inps istituito dall’art. 1, commi 756-757, della legge n. 296/2006.

Tali versamenti assumono la natura di contribuzione previdenziale obbligatoria e, in quanto tali, sono indisponibili, secondo i principi dell’art. 2116 c.c., salvo le esplicite eccezioni normative.

Ne deriva che, anche qualora vi fosse un’intesa tra le parti per l’erogazione mensile del Tfr, le quote già trasferite al Fondo non potrebbero essere oggetto di anticipazione fuori dai casi previsti dalla legge.

Erogazione legittima come retribuzione aggiuntiva: quali conseguenze?

La nota chiarisce inoltre un aspetto giuridicamente rilevante: se l’erogazione del Tfr non avviene secondo le modalità previste dall’articolo 2120 c.c. o da accordi conformi alla normativa, la somma deve essere qualificata come “maggior retribuzione”.

Ciò implica che tali somme:

La posizione dell’Inl è ulteriormente rafforzata dal richiamo all’ordinanza n. 4670 della Corte di Cassazione, pubblicata il 22 febbraio 2021, in cui, la suprema Corte ha confermato che, in assenza di una previsione collettiva o individuale legittimante, l’erogazione del Tfr in busta paga si configura come integrazione retributiva.

Secondo gli ermellini, il Tfr è una prestazione connessa alla cessazione del rapporto e non può essere erogata con cadenza mensile in modo sistematico.

Tale prassi finisce infatti per alterarne la natura, violando i principi della normativa previdenziale e contributiva.

Profili sanzionatori e conseguenze ispettive

L’erogazione non autorizzata del Tfr al di fuori delle ipotesi previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva può determinare dunque importanti ripercussioni sanzionatorie e obblighi correttivi per i datori di lavoro, come chiarito nella nota n. 616/2025 dell’ispettorato nazionale del lavoro.

Il principio affermato dalla giurisprudenza e ribadito nella nota INL è chiaro: ciò che non è legittimamente qualificabile come Tfr deve essere trattato come retribuzione e, pertanto, essere oggetto di contribuzione integrale.

Questo comporta due conseguenze operative fondamentali per l’azienda:

  1. regolarizzazione contributiva: il datore di lavoro deve versare i contributi omessi sulle somme corrisposte indebitamente come Tfr anticipato. In mancanza, l’Inps può avviare un procedimento per il recupero coattivo delle somme, con l’applicazione di sanzioni e interessi di mora;
  2. obbligo di ricostruzione del Tfr: le somme impropriamente liquidate devono essere riaccreditate come quote di Tfr, con necessità di effettuare un riaccantonamento retroattivo, che potrà comportare un rilevante impatto economico per l’azienda.

Quando in sede di verifica ispettiva vengono accertate anticipazioni indebite del Tfr, gli ispettori del lavoro sono tenuti ad attivare un procedimento sanzionatorio e di ripristino, obbligo fondato sull’art. 14 del D.Lgs. n. 124/2004 e che si articola nei seguenti passaggi.

  1. Accertamento formale della violazione mediante verifica documentale e testimonianze.
  2. Redazione del verbale di accertamento, con indicazione dettagliata delle somme erogate impropriamente.
  3. Emissione di un provvedimento di disposizione, con cui si intima al datore di lavoro:

Il mancato rispetto del provvedimento può dar luogo all’irrogazione di sanzioni amministrative e, nei casi più gravi, a denunce penali per evasione contributiva.

Accantonamento retroattivo del Tfr

Uno degli effetti più significativi dell’intervento ispettivo è la necessità di riaccantonamento del Tfr indebitamente erogato: si tratta di un obbligo che può riguardare più anni di rapporti lavorativi e che impone all’azienda una ricostruzione dettagliata delle somme originariamente dovute come Tfr e impropriamente trattate come quota integrativa della retribuzione.

Questo obbligo comporta:

Qualche esempio

Erogazione mensile fissa in busta paga denominata “TFR”

Caso: Un’azienda inserisce nella busta paga mensile dei propri dipendenti una voce fissa denominata “TFR mensile” per un importo pari a circa 1/13 della retribuzione lorda annuale, anche dopo la scadenza del regime sperimentale del 30 giugno 2018.

Problema: In assenza di accordo collettivo o individuale conforme all’art. 2120 c.c., tale prassi non è legittima. Le somme non sono da qualificarsi come TFR ma come maggiorazione retributiva, e devono essere assoggettate a contribuzione ordinaria INPS.

Conseguenza: Gli ispettori del lavoro, in sede di controllo, disporranno l’accantonamento retroattivo delle quote e il versamento contributivo non effettuato, ai sensi dell’art. 14 del D.Lgs. 124/2004.

Accordo individuale scritto ma non conforme

Caso: Un datore di lavoro sottoscrive con alcuni dipendenti un accordo individuale che prevede l’erogazione mensile della quota maturanda di TFR, senza indicare una causale specifica (es. spese sanitarie o prima casa).

Problema: l’accordo non è valido ai sensi dell’art. 2120 c.c., poiché:

Conseguenza: Le somme devono essere riqualificate come retribuzione, con effetto su imponibile contributivo e fiscale. È richiesto l’intervento correttivo ispettivo.

Mancato versamento al Fondo tesoreria Inps

Caso: Un’azienda con oltre 50 dipendenti versa mensilmente il TFR ai lavoratori, ma non trasferisce le quote maturande al Fondo Tesoreria INPS.

Problema: Per legge (art. 1, commi 756-757, L. 296/2006), le aziende con almeno 50 addetti devono obbligatoriamente versare il TFR maturando al Fondo Tesoreria, salvo conferimento alla previdenza complementare.

Conseguenza:

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