Somministrazione di lavoro, periodo di prova, dimissioni per fatti concludenti: questi i temi al centro della circolare n. 6 del 27 marzo 2025, in cui il Ministero del lavoro interviene a chiarire tutte le novità introdotte dal Collegato lavoro (legge n. 203 del 13 dicembre 2024).
Vediamo di che si tratta, e quale l’impatto per aziende e lavoratori.
Tra le novità più rilevanti introdotte dalla legge 203/2024 vi è l’eliminazione della deroga che permetteva fino al 30 giugno 2025 di superare il limite dei 24 mesi nelle missioni a tempo determinato di uno stesso lavoratore somministrato.
Questa disciplina transitoria era applicabile nei casi in cui l’agenzia avesse assunto il lavoratore con contratto a tempo indeterminato: ebbene, il Collegato lavoro abroga tale previsione, ripristinando integralmente il limite dei 24 mesi complessivi per l’utilizzo del lavoratore somministrato, anche se i periodi di missione non sono continuativi.
In concreto, superare il limite di 24 mesi comporta a partire dal 12 gennaio 2025 (data di entrata in vigore della legge) la trasformazione automatica del rapporto tra lavoratore e utilizzatore in un contratto a tempo indeterminato.
Il ripristino del limite dei 24 mesi e la soppressione della deroga sono coerenti con l’orientamento consolidato della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha più volte ribadito l’obbligo per gli Stati membri di garantire la temporaneità della somministrazione di lavoro (direttiva 2008/104/CE).
Missioni prolungate o ripetute presso lo stesso utilizzatore, specie se attraverso l’utilizzo di lavoratori assunti a tempo indeterminato dall’agenzia, rischiano infatti di eludere la finalità temporanea prevista dalla normativa comunitaria.
Anche la giurisprudenza italiana, in particolare la Corte di Cassazione (sentenza n. 29570/2022), ha chiarito che non è legittimo utilizzare il contratto di somministrazione in modo strutturale per coprire esigenze continuative dell’impresa utilizzatrice.
Un chiarimento essenziale fornito dal Ministero con la circolare n. 6 del 27 marzo 2025 riguarda il metodo di calcolo dei 24 mesi.
Solo i periodi di missione a tempo determinato avviati dopo il 12 gennaio 2025 concorrono infatti al raggiungimento del limite mentre i periodi precedenti, anche se riferiti allo stesso lavoratore e allo stesso utilizzatore, non vengono conteggiati.
Questa precisazione ha grande rilevanza pratica: si azzera di fatto il "contatore" delle missioni precedenti alla riforma, permettendo alle aziende di ricorrere nuovamente alla somministrazione a termine per un massimo di 24 mesi a partire dalla prima missione attivata dopo l’entrata in vigore della legge.
Esempio pratico
Un lavoratore somministrato ha già prestato servizio per 30 mesi presso un utilizzatore, in virtù di un contratto stipulato prima del 12 gennaio 2025.
Nonostante abbia superato il limite dei 24 mesi, quel periodo non viene considerato nella nuova disciplina, per cui se l’agenzia decide di assegnargli una nuova missione presso lo stesso utilizzatore potrà farlo per altri 24 mesi a partire dalla nuova data di inizio.
Ciò vale solo se il contratto tra agenzia e utilizzatore è stato stipulato dopo il 12 gennaio 2025.
La circolare affronta anche la questione delle missioni in corso al 12 gennaio 2025: in questi casi vale il principio del tempus regit actum, secondo cui ogni atto giuridico è regolato dalla normativa vigente al momento della sua stipulazione. Ne consegue che:
Questa deroga temporanea ha una funzione di accompagnamento alla nuova disciplina e consente alle aziende di adattarsi alle modifiche senza incorrere immediatamente nelle sanzioni previste.
Per quanto riguarda i limiti quantitativi applicabili ai rapporti di lavoro tramite agenzia, uno degli interventi più rilevanti consiste nell’ampliamento delle categorie di lavoratori escluse dal limite del 30% rispetto al numero di lavoratori a tempo indeterminato presenti in azienda.
Tra le categorie escluse rientrano:
Queste esclusioni, già previste per i contratti a tempo determinato, sono ora esplicitamente estese anche alla somministrazione, con un riallineamento normativo che consente una gestione più omogenea e coerente delle diverse forme di flessibilità contrattuale.
Un’ulteriore deroga di rilievo riguarda i lavoratori somministrati a tempo determinato assunti con contratto a tempo indeterminato dall’agenzia: in questo caso, l’utilizzatore può impiegarli senza tener conto del limite del 30%, anche se l’assegnazione avviene per attività non incluse tra quelle espressamente escluse.
La ratio di questa disposizione è incentivare il contratto a tempo indeterminato presso le agenzie e garantire una maggiore stabilità occupazionale dei lavoratori, pur nel contesto della somministrazione.
Con l’obiettivo di facilitare l’inserimento lavorativo delle persone più fragili, l’articolo 10, comma 1, lettera b) del Collegato lavoro introduce una deroga importante alla disciplina generale sui contratti a termine.
Le agenzie per il lavoro possono infatti stipulare contratti di somministrazione a tempo determinato senza obbligo di causale se i destinatari rientrano tra i lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, in deroga all’articolo 19, comma 1, del D.lgs. 81/2015 che prevede l’obbligo di motivare contratti superiori a 12 mesi.
Chi sono i lavoratori svantaggiati
La definizione delle categorie svantaggiate segue i criteri del Regolamento (UE) n. 651/2014, recepito in Italia con il DM 17 ottobre 2017.
Sono invece considerati molto svantaggiati i soggetti disoccupati da oltre 24 mesi o, per alcune categorie, da oltre 12 mesi.
L’articolo 11 della legge 203/2024 chiarisce in modo definitivo il significato di attività stagionale, fornendo un’interpretazione autentica dell’art. 21, comma 2, del decreto legislativo n. 81/2015. La norma stabilisce che rientrano nella nozione di lavoro stagionale:
Il ruolo della contrattazione collettiva
Elemento centrale di questa riforma è il riconoscimento esplicito del ruolo della contrattazione collettiva nel definire ulteriori ipotesi di attività stagionali; viene infatti confermato che anche i contratti collettivi stipulati da soggetti comparativamente più rappresentativi possono integrare l’elenco delle attività stagionali.
La definizione estensiva di attività stagionale deve però rispettare i principi fissati dalla Direttiva 1999/70/CE e dall’accordo quadro europeo sul lavoro a tempo determinato.
In particolare, la clausola 5.1 della direttiva impone agli Stati membri di prevenire abusi nei contratti a termine attraverso almeno una delle seguenti misure:
Poiché i contratti stagionali sono esclusi dai limiti di durata e rinnovo, l’unico criterio valido per garantirne la legittimità è dunque l’esistenza di ragioni oggettive concrete legate alla stagionalità, come richiamato dalla normativa europea e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (es. sentenza Angelidaki).
A partire dal 12 gennaio 2025, tutti i nuovi contratti a tempo determinato devono rispettare i criteri introdotti dalla riforma all’articolo 7, comma 2, del decreto legislativo 104/2022, in attuazione della Direttiva (UE) 2019/1152 sulle condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili.
La nuova norma stabilisce che, salvo condizioni più favorevoli stabilite dalla contrattazione collettiva, la durata del periodo di prova nei contratti a tempo determinato debba essere di un giorno di effettiva prestazione ogni 15 giorni di calendario di contratto, a partire dalla data di inizio del rapporto.
Questa modalità di calcolo introduce un criterio chiaro, uniforme e facilmente applicabile, garantendo un equilibrio tra l’esigenza del datore di valutare il lavoratore e la necessità di tutela del lavoratore stesso.
Limiti minimi e massimi
Per evitare eccessi o abusi, la legge impone anche dei limiti inderogabili che non possono essere superati nemmeno dalla contrattazione collettiva.
Per i contratti di durata superiore a 12 mesi si applica il criterio proporzionale (un giorno ogni 15), anche se ciò comporta un periodo di prova superiore ai 30 giorni, purché non deroghi in pejus rispetto ad eventuali condizioni più favorevoli dei CCNL.
Ma come si determina se una clausola è effettivamente più favorevole?
Secondo il principio del favor praestatoris, va considerata più favorevole la disposizione che offre maggiore tutela al lavoratore. Di norma, una minore durata del periodo di prova è considerata più vantaggiosa, poiché riduce il tempo in cui il dipendente è esposto al rischio di recesso unilaterale senza giustificazione.
Non è rilevante il livello della contrattazione (nazionale, aziendale, territoriale): ciò che conta è che il contratto collettivo applicato dall’azienda preveda una regolazione più protettiva rispetto al minimo legale.
Oltre al tema del lavoro a termine, la circolare 6/2025 chiarisce le nuove regole sulle comunicazioni obbligatorie relative al lavoro agile.
A partire dal 12 gennaio 2025, i datori di lavoro del settore privato sono tenuti a inviare la comunicazione di:
Il termine per queste comunicazioni è fissato in 5 giorni a partire dalla data dell’evento (inizio, modifica o cessazione).
Differenze tra settore privato e pubblico
È importante sottolineare che queste nuove regole si applicano solo al settore privato: per quanto riguarda la Pubblica Amministrazione, infatti, rimane in vigore il regime precedente in virtù della parziale applicabilità della disciplina del lavoro agile al pubblico impiego, ai sensi dell’art. 18, comma 3, della legge 81/2017.
Le PA continuano ad avere tempo, quindi, fino al giorno 20 del mese successivo all’avvio della prestazione in modalità agile per effettuare le comunicazioni, come previsto dall’art. 9-bis del decreto legge n. 510/1996.
Tra le novità introdotte dal Collegato lavoro, una delle più rilevanti in tema di risoluzione del rapporto di lavoro è contenuta nell’articolo 19, che interviene sull’art. 26 del decreto legislativo 151/2015 introducendo il nuovo comma 7-bis.
La disposizione disciplina i casi in cui un lavoratore si assenti dal lavoro senza giustificazione per un periodo prolungato, consentendo al datore di lavoro di considerare tale comportamento come una dimissione implicita, o per fatti concludenti.
L’articolo 19 stabilisce dunque che in caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato o in mancanza di tale previsione, oltre i 15 giorni di calendario, il datore di lavoro può considerare il rapporto risolto per volontà del lavoratore.
In pratica, se il lavoratore si assenta senza fornire spiegazioni e non rientra entro il termine stabilito, il datore può avviare una procedura semplificata per la cessazione del rapporto di lavoro, senza attivare la procedura formale di licenziamento.
Comunicazione obbligatoria all’Ispettorato del lavoro
Affinché l’effetto risolutivo sia però valido, il datore di lavoro deve inviare una comunicazione ufficiale alla sede territoriale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), competente per il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa.
Tale comunicazione deve contenere i recapiti del lavoratore e ogni informazione utile per accertare la veridicità dell’assenza e va inviata anche al lavoratore, per garantire il pieno esercizio del diritto di difesa.
La comunicazione costituisce il dies a quo per l’invio della comunicazione di cessazione tramite modello UNILAV, da effettuarsi entro 5 giorni.
La risoluzione ha effetto dalla data della comunicazione all’Ispettorato e durante il periodo di assenza ingiustificata il datore non è tenuto a corrispondere retribuzione né contributi.
Onere probatorio, forza maggiore e diritto alla difesa
Per tutelare il lavoratore, la norma prevede che l’effetto risolutivo non si applica se il lavoratore riesce a dimostrare:
Il carico della prova grava sul lavoratore: se la documentazione prodotta o le verifiche ispettive dimostrano che la comunicazione datoriale era infondata, la risoluzione è inefficace e il rapporto di lavoro si considera ancora in essere.
Inoltre, se il lavoratore nel frattempo ha presentato le dimissioni telematiche tramite il portale ministeriale, queste prevalgono sulla procedura datoriale, rendendo nullo l’effetto delle dimissioni implicite.
Compatibilità con le tutele per maternità, paternità e categorie protette
La disciplina delle dimissioni implicite non si applica nei casi previsti dall’articolo 55 del d.lgs. 151/2001, che tutela:
Per questi casi, la legge prevede l’obbligo di convalida da parte dell’Ispettorato per qualunque cessazione volontaria del rapporto, che sospende ogni efficacia fino alla verifica.
Pertanto, non è possibile applicare il meccanismo delle dimissioni per assenza a lavoratrici o lavoratori in condizioni di protezione genitoriale, che rientrano in un regime speciale di tutela rafforzata.
Fase |
Attività |
Cosa fare |
---|---|---|
1. Monitoraggio assenze |
Controllo presenze |
Verifica quotidiana e segnala l’assenza non giustificata |
|
Tentativi di contatto |
Email, PEC, raccomandata, telefonate |
2. Verifica CCNL |
Controllo termine assenza |
Consulta il CCNL per il termine previsto |
|
Applicazione del termine |
Scegli il termine più favorevole al lavoratore |
3. Comunicazione INL |
Predisposizione comunicazione |
Redigi comunicazione per Ispettorato territoriale |
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Invio al lavoratore |
Spedisci copia anche al dipendente |
4. Comunicazione UNILAV |
Invio comunicazione cessazione |
Usa il modello UNILAV entro 5 giorni |
5. Post-cessazione |
Gestione retribuzione |
Nessun pagamento per l’assenza ingiustificata |
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Indennità preavviso |
Trattienila se prevista dal contratto |
|
Conservazione documenti |
Archivia tutta la documentazione |
6. Casi esclusi |
Maternità/paternità |
Verifica se il lavoratore rientra nel d.lgs. 151/2001 |
7. Contestazioni |
Verifica motivazioni lavoratore |
Valuta cause di forza maggiore o fatti imputabili al datore |
|
Accertamenti ispettivi |
L’INL può annullare la cessazione |
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