La Cassazione affronta la corretta qualificazione delle somme versate nei contratti preliminari di compravendita immobiliare, riconoscendone la natura effettiva di deposito cauzionale.
Ciò comporta che i versamenti in questione non possono essere assoggettati a IVA, in quanto non configurabili come anticipi di corrispettivo.
E’ quanto affermato nell’ordinanza n. 23857 pubblicata il 25 agosto 2025, che ribalta l’impostazione accolta in secondo grado dall’Agenzia delle Entrate, che aveva invece riqualificato le somme come acconti imponibili.
Vediamo come sono delineati i fatti.
Una s.p.a. ha stipulato contratto preliminare di compravendita immobiliare avente ad oggetto terreni e fabbricati da edificare. In esecuzione di tale accordo, la società versò complessivamente una somma indicata espressamente dalle parti come “deposito cauzionale”.
Il contratto preliminare stipulato fu in seguito risolto consensualmente tra le parti, senza passaggio alla stipula di un definitivo.
L’Agenzia delle Entrate, a seguito di controlli, riqualificò i versamenti qualificati contrattualmente come “depositi cauzionali”, ritenendoli in realtà acconti sul prezzo degli immobili promessi in vendita e dunque operazioni soggette a IVA. Conseguentemente emise un avviso di contestazione alla società, aggiungendo anche le sanzioni per omessa regolarizzazione degli acquisti, ai sensi dell’art. 6, comma 8, del d.lgs. n. 471/1997.
La società contribuente impugnò l’atto impositivo dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Prato, che le diede ragione, accogliendo il ricorso.
L’Agenzia delle Entrate propose appello e la Commissione Tributaria Regionale della Toscana riformò la decisione di primo grado. I giudici regionali ritennero che i versamenti, pur qualificati dalle parti come “deposito cauzionale”, avessero nella sostanza natura di acconti di prezzo.
A supporto di tale interpretazione richiamarono precedenti giurisprudenziali, in particolare:
Contro la decisione delle CTR Toscana la società ha presentato ricorso in Cassazione.
La società contribuente ha ricorso attraverso due motivi principali.
La ricorrente critica la decisione della CTR per avere omesso di fare corretta applicazione dei principi dell’art. 1362 c.c.: infatti, secondo la stessa Suprema Corte, nell’interpretazione dei contratti il primo criterio di riferimento è rappresentato dal significato letterale delle parole utilizzate dalle parti. Soltanto qualora il testo presenti ambiguità o non consenta da solo di chiarire la volontà negoziale, è possibile ricorrere ad altri strumenti interpretativi.
Pertanto, non si può dare alla clausola contrattuale un senso diverso da quello che emerge in modo immediato e chiaro dal suo contenuto testuale, a meno che il contesto non dimostri inequivocabilmente che i contraenti intendevano altro rispetto a ciò che hanno scritto.
Nel caso concreto, la clausola contrattuale impiegava in maniera chiara e inequivocabile l’espressione “deposito cauzionale”. Non vi era dunque alcuna incertezza linguistica che potesse giustificare un’interpretazione diversa.
La Commissione regionale, invece di attenersi al significato letterale scelto dalle parti, ha ritenuto di poter attribuire alla pattuizione una funzione sostanzialmente differente, considerandola un anticipo del prezzo. In questo modo, tuttavia, i giudici di merito hanno oltrepassato i limiti consentiti dall’attività ermeneutica, finendo per sostituire alla volontà espressa dai contraenti una volontà diversa, ricostruita dal giudice stesso.
La Corte di Cassazione, nell’ordinanza n. 23857 del 25 agosto 2025, dopo avere esaminato i motivi di ricorso e valutato le argomentazioni delle parti, ha concluso che le censure mosse dalla società contribuente sono fondate.
La decisione della Commissione Tributaria Regionale non ha applicato correttamente i principi di ermeneutica contrattuale e ha attribuito alle somme versate una qualificazione (acconto sul prezzo) diversa e incompatibile con quella chiaramente voluta dalle parti (deposito cauzionale). Di conseguenza, la pronuncia impugnata non può essere mantenuta e deve essere annullata.
La Corte ricorda che, in materia di interpretazione dei contratti, il punto di partenza obbligato è sempre il senso letterale delle parole utilizzate (art. 1362 c.c.). Solo se il testo presenta margini di ambiguità o non consente di cogliere con chiarezza l’intento delle parti, diventa legittimo ricorrere a criteri interpretativi ulteriori. ù
Nel caso di specie, i contratti preliminari impiegavano in modo esplicito e inequivocabile l’espressione “deposito cauzionale”. Non vi era, quindi, alcuna incertezza lessicale che autorizzasse un’interpretazione alternativa.
La Cassazione ribadisce che il deposito cauzionale ha una funzione ben precisa: garantire l’adempimento di un’obbligazione, senza costituire immediatamente né corrispettivo né parte del prezzo. Solo in caso di inadempimento, infatti, esso può essere trattenuto.
La caparra confirmatoria ha invece una diversa finalità: rappresenta una liquidazione anticipata del danno da eventuale inadempimento (art. 1385 c.c.).
L’acconto sul prezzo, infine, si configura come pagamento parziale della prestazione principale e produce effetti immediati anche sul piano fiscale, comportando l’applicazione dell’IVA.
Confondere queste figure, osserva la Corte, significa alterare la natura giuridica del rapporto e attribuire effetti tributari che non corrispondono né al testo del contratto né alla volontà delle parti.
La Commissione Tributaria Regionale, invece, ha ritenuto di poter leggere dietro questa formula una diversa volontà delle parti, riqualificando i versamenti come acconti sul prezzo. Così facendo, però, ha oltrepassato i limiti dell’attività interpretativa, sostituendo la propria valutazione alla volontà chiaramente manifestata dai contraenti.
Dunque, la Cassazione ha riconosciuto la natura effettiva di “deposito cauzionale” delle somme versate nei preliminari, distinguendolo nettamente da acconto o caparra. Questo implica che tali versamenti non erano soggetti a IVA in quanto non qualificabili come anticipi di prezzo.
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