La Corte di Cassazione, con sentenza n. 24485/2025, segna un importante punto di svolta per il diritto tributario d’impresa. Al centro della pronuncia, un interrogativo tutt’altro che teorico: quando è legittimo dedurre un costo o iscrivere un ricavo derivante da una controversia giudiziaria?
La Suprema Corte introduce un nuovo principio interpretativo, destinato a incidere profondamente sulla prassi operativa e sul contenzioso tra contribuenti e fisco: non è più sufficiente fare riferimento alla competenza temporale. Quello che davvero conta, secondo i giudici, è il momento in cui si raggiunge la certezza oggettiva circa l’esistenza e l’ammontare dell’elemento reddituale.
Una svolta che si discosta dalle posizioni tradizionalmente assunte dall’Agenzia delle Entrate e da parte della precedente giurisprudenza di legittimità, con implicazioni rilevanti sia per le imprese che per i professionisti fiscali.
Con un ricorso presentato in data 14 febbraio 2020, una azienda speciale appartenente a un Comune (contribuente) ha impugnato un avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate, relativo all’anno d’imposta 2014.
Tale azienda speciale era nata a seguito della scissione parziale di un’altra azienda speciale idrica, e la nuova entità aveva assunto la forma di società per azioni (S.p.A.). A seguito di questa trasformazione, alla contribuente venne notificato, in data 17 dicembre 2019, un avviso di accertamento IRES con cui si contestava un maggiore imponibile, oltre a sanzioni e interessi.
Nel dettaglio, l’Amministrazione finanziaria contestava due principali rilievi.
La Commissione Tributaria Provinciale competente aveva dato ragione parzialmente alla contribuente, annullando la ripresa a tassazione del fondo pensioni, ma confermando la correttezza della deduzione dei costi di risarcimento derivanti dalla sentenza del 2009.
Successivamente, l’Agenzia delle Entrate propose appello principale alla Commissione Tributaria Regionale, mentre la contribuente presentò appello incidentale per contestare gli aspetti della decisione a lei sfavorevoli. La CTR, con sentenza n. 802/2022 del 20 gennaio 2022, confermò in toto la sentenza di primo grado, sia sul punto dell’utilizzo del fondo pensioni, sia su quello della deducibilità dei costi da risarcimento.
Infine, contro tale sentenza la Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione, articolato su due motivi, mentre la contribuente ha resistito con controricorso e ricorso incidentale basato a sua volta su tre motivi.
Passiamo a trattare la parte più rilevante della sentenza n. 24485 pronunciata il 4 settembre 2025 ossia il corretto anno di imputazione di tali costi nel bilancio, ai fini della determinazione del reddito d’impresa.
Con il primo motivo del proprio ricorso incidentale, intitolato "Violazione e falsa applicazione degli articoli 109, comma 1, e 99, comma 1 del TUIR, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.", la contribuente contesta la decisione della CTR per due principali ragioni:
Entrando più nel dettaglio, la contribuente spiega che nel 2009, con sentenza del Tribunale di Napoli, era stata condannata a rimborsare le spese processuali sostenute dalle controparti in un giudizio promosso da Na.Bi., per i danni causati da un allagamento provocato dalla rottura di una condotta idrica. A ciò si aggiungeva anche la quota di risarcimento non coperta dalla polizza assicurativa, ovvero quella corrispondente alla franchigia.
Dunque, la contribuente censura la decisione della CTR, che ha dato per esecutiva la sentenza di primo grado del 2009 e ha ritenuto che le spese e i costi in essa contenuti dovessero obbligatoriamente essere dedotti in quell’esercizio. Inoltre, pur non pronunciandosi espressamente, la Corte regionale avrebbe in sostanza approvato l’operato dell’Agenzia, che aveva incluso tra gli attivi del 2014 anche gli importi assicurativi relativi ai danni indiretti, ritenendo che questi dovessero essere iscritti immediatamente dopo la sentenza di appello, senza attendere l’eventuale esito definitivo del contenzioso.
La Corte di Cassazione nella sentenza 24485/2025 riconosce la fondatezza del primo motivo sollevato nel ricorso incidentale dalla contribuente, chiarendo in maniera netta un principio già delineato in precedenti pronunce.
In ambito di imposte sul reddito d’impresa, per stabilire correttamente l’anno di competenza in cui devono essere registrati ricavi e costi, occorre fare riferimento all’art. 109 del TUIR. Secondo tale disposizione, affinché un componente reddituale possa essere validamente imputato a un determinato esercizio, è necessario che siano rispettate due condizioni essenziali:
Questa duplice condizione si applica sia agli elementi positivi di reddito (per i quali l’onere della prova ricade sull’Amministrazione finanziaria), sia agli elementi negativi (a carico del contribuente).
In particolare, nel caso di passività potenziali derivanti da una controversia in corso, il costo non può essere dedotto nel periodo in cui la lite è sorta, ma solo in quello in cui essa si è conclusa con decisione definitiva.
A conferma di questo orientamento, la Corte richiama anche precedenti decisioni della stessa Sezione tributaria (es. Cass. n. 19166/2021 e Cass. n. 15320/2019), ribadendo che il momento rilevante non è l’origine del debito, bensì la sua definizione giuridica certa e quantificata.
Il testo dell’articolo 109 del Tuir è chiaro: i componenti reddituali di cui non sia ancora certa l’esistenza o determinabile con obiettività l’ammontare devono essere imputati all’esercizio in cui tali condizioni si verificano.
La norma contiene anche una congiunzione significativa – "tuttavia" – che limita l’assolutezza del principio di competenza, subordinandolo al verificarsi delle condizioni di certezza.
Alla luce di ciò, la Corte evidenzia un errore commesso dal giudice d’appello: questi ha affermato che i costi contenuti nella sentenza di primo grado avrebbero dovuto essere imputati a quell’anno, soltanto perché la sentenza era formalmente esecutiva.
Tuttavia, tale affermazione non tiene conto di due elementi fondamentali:
È solo con la sentenza d’appello del 2014 che le passività hanno assunto carattere definitivo, giustificando quindi la deduzione in quell’esercizio.
Estensione del principio anche agli attivi
Un discorso analogo vale per le somme spettanti alla contribuente a titolo di indennizzo per danni indiretti, riconosciute dalla sentenza di secondo grado.
La società assicuratrice aveva contestato in modo non pretestuoso il diritto al risarcimento di tali danni, sostenendo che non rientrassero nella copertura della polizza. In questa situazione, la Cassazione ritiene corretta la scelta della contribuente di non iscrivere quei proventi tra gli attivi del bilancio 2014, poiché l’esistenza del diritto stesso era ancora incerta.
La Corte conclude con l’affermazione di un principio generale, destinato ad avere ampia rilevanza:
Pertanto, la Corte dichiara infondato il ricorso principale dell’Agenzia delle Entrate, confermando la legittimità della condotta contabile adottata dalla contribuente.
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