Decesso sul posto di lavoro, datore condannato per mancata formazione

Pubblicato il 25 giugno 2019

Nel caso in cui il lavoratore muore sul posto di lavoro per inesperienza e imprudenza, il datore di lavoro è condannato per omicidio colposo. Quest’ultimo, infatti, avrebbe dovuto adottare ogni mezzo necessario per evitare l’evento di morte del lavoratore - come ad esempio la formazione - indipendentemente se lo stesso abbia avuto un atteggiamento imprudente nello svolgimento dell’attività lavorativa.

Ad affermarlo sono i giudici della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27787 del 24 giugno 2019. Nel caso di specie, il lavoratore è caduto vittima della sua stessa inesperienza, in quanto muore a soli dieci giorni dall’assunzione perché adibito a compiti per i quali non è stato formato. A nulla rileva che il dipendente abbia firmato una liberatoria in cui attesta di aver ricevuto un’informazione sufficiente sul relativo utilizzo dei dispositivi di protezione individuale (Dpi).

Condannata la mancata formazione

Il dipendente, nell’espletare la sua funzione lavorativa, consistente nell’abbattimento di piante, è stato travolto da un albero che egli stesso ha tagliato, causandogli la morte. La dinamica della caduta dell’albero non poteva essere preventivata dal dipendente, in quanto in precedenza ha sempre svolto il lavoro di manovale, non il boscaiolo.

Nonostante ciò, il caposquadra conferma che il sottoposto elude la sua vigilanza. Inoltre, nei giorni precedenti l’ex muratore aveva avuto modo di dimostrare di saper tagliare alberi, non limitandosi ad attività complementari come togliere i rami alle piante.

La Corte d’Appello, però, stabiliva che il nuovo assunto doveva essere sottoposto a un periodo di apprendistato e assegnato a sole attività ausiliarie o di supporto, in modo da apprendere le tecniche e le precauzioni necessarie che gli sarebbero state utili in futuro nello svolgimento di mansioni più impegnative. Tra l’altro, affermavano i giudici di merito, la liberatoria firmata che attestava la consegna dei dispositivi di protezione individuale è del tutto irrilevante, in quanto il datore deve comunque controllare che i dipendenti indossino l’equipaggiamento di sicurezza oltre a fornirlo.

Il datore impugnava la sentenza e ricorreva in Cassazione.

Prevale la violazione antinfortunistica sull’imprudenza del lavoratore

I giudici della Corte di Cassazione respingono il ricorso del datore di lavoro. Gli ermellini hanno rilevato che la fase formativa era del tutto carente in relazione alla prestazione lavorativa di taglio delle piante. A nulla rileva poi che nel verbale di consegna dei dispositivi di protezione individuale sottoscritto dal lavoratore quest’ultimo riconosceva di aver ricevuto una sufficiente informazione sul loro utilizzo e sui rischi della lavorazione, in quanto il giudice di Appello ha evidenziato come il datore, pur avendo ottenuto una sorta di liberatoria dai propri dipendenti in ordine alla dotazione di strumenti antiinfortunistici, di fatto aveva eluso gli obblighi sullo stesso incombenti sul luogo di lavoro.

In conclusione, la vittima compie un gesto avventato ma resta dimostrato il nesso fra la violazione antinfortunistica e l’evento morte: il datore può essere scriminato soltanto se dimostra che la condotta della vittima è abnorme. Ciò, nel caso di specie, risulta escluso: l’iniziativa del nuovo assunto non si può ritenere del tutto imprevedibile dal momento che l’ambito lavorativo prevede il taglio delle piante e la preparazione del legname ricavato con un’attività contestuale. Tra l’altro l’area del rischio da gestire obbligava all’azienda anche di impedire ai dipendenti prassi pericolose per loro stessi.

 

 

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