Disabilità, licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta: legittimo?

Pubblicato il 30 maggio 2023

Licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, in presenza dei presupposti di applicabilità dell'art. 3, comma 3-bis, del D. Lgs. n. 216/2003: il datore di lavoro ha l'onere di provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso.

Licenziamento del lavoratore disabile: parità di trattamento e accomodamenti ragionevoli

Ai sensi della richiamata normativa, il datore di lavoro è obbligato, al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, ad adottare tutte le misure - cd. accomodamenti ragionevoli - atte ad evitare il licenziamento, anche quando queste incidano sull'organizzazione aziendale e salvo il limite dell'eventuale sproporzione degli oneri a carico dell'impresa.

Egli, quindi, nell'ipotesi di licenziamento del dipendente disabile divenuto inidoneo alla mansione, è tenuto a dimostrare:

Tale ultimo onere, in particolare, può essere assolto mediante la deduzione del compimento di atti od operazioni strumentali all'avveramento dell'accomodamento ragionevole.

Deve trattarsi di fatti secondari presuntivi, idonei a indurre nel giudice il convincimento che il datore abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata per scongiurare il licenziamento, avuto riguardo a tutte le circostanze rilevanti nel caso concreto.

Onere probatorio a carico del datore di lavoro

Così la Corte di cassazione con ordinanza n. 15002 del 29 maggio 2023, nel richiamare i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di disabilità e accomodamento ragionevole.

Nella specie, è stata confermata la dichiarazione di illegittimità del licenziamento che una cooperativa sociale aveva intimato, per sopravvenuta parziale inidoneità fisica allo svolgimento delle mansioni, ad una propria dipendente, precedentemente dichiarata idonea alla mansione di OSS anche se con limitazioni.

La datrice di lavoro, in particolare, aveva violato l’obbligo di verificare la possibilità di effettuare adattamenti organizzativi ragionevoli così da trovare una sistemazione adeguata alle condizioni di salute della donna, adattamento possibile alla luce del tipo di organizzazione adottato dalla società.

Era ossia corretto, secondo la Suprema corte, l'accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine al mancato rispetto dell’obbligo di repechage nei confronti della lavoratrice.

Da qui l'annullamento del comminato licenziamento, con applicazione della tutela reintegratoria e condanna della datrice di lavoro al pagamento di un risarcimento del danno pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

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