Disabilità e accomodamento ragionevole: quando il licenziamento è illegittimo

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Disabilità e accomodamento ragionevole: quando il licenziamento è illegittimo

La Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con la sentenza n. 6497 del 9 marzo 2021 torna, con una pregevole ricognizione delle fonti di diritto positivo e un importante intervento in chiave normofilattica, sul tema dell'obbligo, a carico del datore di lavoro, di provvedere ad adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro per evitare il licenziamento del dipendente disabile divenuto inidoneo alla mansione.

Illegittimità del licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica

La Corte di appello conferma la sentenza di primo grado di illegittimità del licenziamento intimato a un dipendente per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione e condanna il datore di lavoro a reintegrarlo sul posto di lavoro ex art. 18, co. 4, Statuto dei lavoratori nonché a corrispondergli, a titolo risarcitorio, le retribuzioni globali di fatto maturate dal giorno del licenziamento a quello dell'effettiva reintegrazione nei limiti delle dodici mensilità globali di fatto, oltre agli accessori.

La Corte territoriale ha accertato potersi applicare, nella fattispecie in esame, l'art. 3, comma 3 bis, del D. Lgs. n. 216 del 2003, di recepimento dell'art. 5 della direttiva 2000/78/CE, che obbliga il datore di lavoro, ad adottare tutte le misure (cd. accomodamenti ragionevoli) atte ad evitare il licenziamento, anche quando queste incidano sull'organizzazione dell'azienda e salvo il limite dell'eventuale sproporzione degli oneri a carico dell'impresa.

Condividendo la valutazione effettuata dal Tribunale, la Corte ha ritenuto che l'azienda avrebbe dovuto "dimostrare che la destinazione del lavoratore portatore di handicap in tale ufficio avrebbe imposto un onere finanziario sproporzionato o comunque eccessivo anche con riferimento alla formazione professionale" mentre il datore di lavoro si è "limitato ad affermare l'impossibilità del repéchage del dipendente fisicamente inidoneo secondo gli usuali criteri (statici) vigenti in tema di giustificato motivo oggettivo per soppressione delle mansioni".

La società datrice di lavoro propone ricorso per cassazione al quale resiste, con controricorso, il lavoratore.

Accomodamenti ragionevoli e onere probatorio del datore di lavoro

Due i motivi di ricorso addotti dalla società. 

Con il primo, si denuncia l'erroneità della sentenza impugnata sul punto in cui afferma che l'obbligo, in capo al datore di lavoro, di adottare gli accomodamenti ragionevoli per evitare il licenziamento del lavoratore divenuto inidoneo (portatore di handicap) alle specifiche mansioni incontrerebbe il limite della sproporzione degli oneri a carico dell'impresa, ma non anche quello della "modificazione delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa a carico dei singoli colleghi dell'invalido".

Con il secondo motivo poi si denuncia l'aver addossato un improprio onere probatorio sul datore di lavoro.

I motivi di ricorso, esaminati congiuntamente dalla Corte di Cassazione, risultano infondati.

Quadro normativo

I Giudici di legittimità operano una ricostruzione del quadro normativo generale sul piano del diritto sovranazionale e della legislazione interna.

Vengono in particolare citati il  D. Lgs. n. 216 del 2003, come modificato dal d.l. 28 giugno 2013, n. 76 (art. 9, comma 4-ter), conv. con modif. dalla legge  9 agosto 2013, n. 99, che ha inserito nel testo dell'art. 3 del decreto legislativo il comma 3 bis, evocato nella controversia de quo nonchè la disciplina settoriale nella legge 12 marzo 1999, n. 68, recante "Norme per il diritto al lavoro dei disabili" e l'art. 42 del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.

Ed ancora, in tema di licenziamento e reintegrazione nel posto di lavoro, il comma 7 dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, e l'art. 2 del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23.

II contesto normativo sovranazionale trova invece i suoi punti di riferimento nella "Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità", adottata il 13 dicembre 2006, ratificata e  resa esecutiva dall'Italia con legge n. 18 del 2019 e nella direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Misure organizzative da adottare

Dalla ricognizione delle fonti normative operata, rileva la Suprema Corte, emerge un quadro complesso, frutto di successive stratificazioni normative, sovente non coordinate tra loro, di livello interno e internazionale, che richiede un intervento normofilattico della giurisprudenza di legittimità.

Sotto il profilo della nozione di "accomodamenti ragionevoli" occorre muovere dal dato testuale.

Il termine "accomodamento", che nella lingua italiana richiama l'idea dell'accordo ovvero dell'adeguamento o della regolazione di uno strumento meccanico, è in realtà la trasposizione lessicale pedissequa dall'inglese "accomodation", presente nella Convenzione ONU del 2006, alla quale esplicitamente rinvia il comma 3 bis dell'art. 3  del D. Lgs. n. 216 del 2003 e presente anche nella versione inglese dell'art. 5 della direttiva 2000/78/CE, sebbene tradotto in quella italiana con "soluzioni ragionevoli".

Si tratta, evidenziano i Giudici di legittimità, di adeguamenti, lato sensu, organizzativi che il datore di lavoro deve porre in essere al fine di "garantire il principio della parità di trattamento dei disabili" e che si caratterizzano per la loro "appropriatezza", ovvero per la loro idoneità a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l'attività lavorativa. Misure organizzative che devono essere adottate in ogni fase del rapporto di lavoro, da quella genetica sino a quella della sua risoluzione, non essendo specificamente destinate a prevenire un licenziamento.

Limite della "sproporzione" del costo

L'accomodamento non deve imporre "un onere sproporzionato o eccessivo" nel senso che il datore di lavoro vi è obbligato salvo che i provvedimenti appropriati richiedano "un onere finanziario  sproporzionato".

La "soluzione non è sproporzionata allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili".

Inoltre, "per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi  finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'organizzazione o dell'impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni".

Criterio della ragionevolezza

Al limite della "sproporzione" del costo si affianca quello dell'aggettivo che qualifica l'accomodamento come "ragionevole".

Sul punto la Suprema Corte fa presente che, stante la natura indeterminata della clausola di "ragionevolezza" non possono essere dettate, in astratto, prescrizioni cogenti che prescindano dalle circostanze del caso concreto: l'accomodamento infatti postula una interazione fra una persona individuata, con le sue limitazioni funzionali, e lo specifico ambiente di lavoro che la circonda, interazione che, per la sua variabilità, non ammette generalizzazioni.

Rileva però l'esigenza di una valutazione comparata di tutti gli interessi in gioco, al fine di un bilanciato contemperamento tra l'interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà  e l'interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l'impresa.

Cosa deve dimostrare il datore di lavoro 

In merito poi alle regole che ripartiscono gli oneri di allegazione e prova in un giudizio, il datore di lavoro può assolvere all'onere probatorio "mediante la deduzione del compimento di atti o operazioni strumentali rispetto all'avveramento dell'accomodamento ragionevole, che assumano il rango di fatti  secondari di tipo indiziario o presuntivo, i quali possano indurre nel giudicante il  convincimento che il datore abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata che scongiurasse il licenziamento,  avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto".

Ovviamente, conclude la Corte di Cassazione, il datore di lavoro potrà anche dimostrare che eventuali soluzioni alternative, pur possibili, fossero prive di ragionevolezza, magari perché coinvolgenti altri interessi comparativamente preminenti, ovvero fossero sproporzionate eccessive, a causa dei costi finanziari o di altro tipo ovvero per le dimensioni e le risorse dell'impresa.

Alla luce delle argomentazioni illustrate, la Cassazione respinge il ricorso.

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