Esterovestizione. Sentenza stilisti ribaltata in Cassazione

Pubblicato il 31 ottobre 2015

La Corte di cassazione, con sentenza n. 43809 depositata il 30 ottobre 2015, ha ribaltato la decisione con cui i giudici di merito avevano condannato gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, in concorso con altri soggetti, per asserita esterovestizione ed evasione fiscale.

Società esterovestita, ragioni extrafiscali da valutare

In merito all’imputazione di esterovestizione - conseguente alla costituzione, in Lussemburgo, di due società a cui era stata trasferita la titolarità di alcuni marchi -, la Suprema corte ha giudicato erronea la conclusione resa dai giudici di gravame secondo cui l’esterovestizione medesima risultava derivare dal fatto che si trattava di una società apparentemente localizzata all’estero ma di fatto gestita a Milano.

La soluzione della vicenda - secondo i giudici di Cassazione - era stata tratta senza prendere in esame la concorrente e incontestata sussistenza di “robusteragioni extrafiscali che avevano ispirato il gruppo nella scelta del Lussemburgo quale sede delle società, per come ampliamente articolato dalla difesa degli imputati che, sul punto, aveva anche sollecitato l’audizione di testimoni, mai sentiti perché revocati in primo grado.

Sul punto i giudici di legittimità hanno, infatti ricordato come, ai fini della domiciliazione fiscale, non sia necessario che l’attività d’impresa venga svolta in Italia, ma la verifica dell’esercizio di tale attività costituisce pur sempre condizione imprescindibile per accertare la natura fittizia o meno dell’insediamento e, dunque, la sua esterovestizione.

Nella specie, inoltre, il delicatissimo tema relativo all’elemento soggettivo del reato e, in particolare, del dolo di evasione, è stato ritenuto “sbrigativamente liquidato” dalla Corte d’appello.

In particolare, la motivazione di merito è stata ritenuta insufficiente in quanto aveva tratto dall’aspetto oggettivo della condotta argomento per ritenere sussistente il dolo specifico di evasione.

E secondo la Suprema corte il dolo generico, la consapevolezza ossia della natura elusiva dell’operazione, non può essere confuso con lo scopo della condotta.

Dolo di elusione, non va identificato con il dolo di evasione

La sentenza di legittimità è quindi intervenuta a precisare che l’esclusivo perseguimento di un risparmio fiscale ovvero, a maggior ragione, la presenza anche solo marginale di ragioni extrafiscali, se può valere a qualificare l’operazione come elusiva, non è di per sé sufficiente a dimostrare il dolo di evasione, soprattutto quanto l’operazione economica sia reale ed effettiva.

In merito è stato anche affermato il principio di diritto secondo cui le disposizioni antielusive in materia tributaria “hanno rilevanza in quanto concorrono a definire, sul piano oggettivo, gli elementi normativi della fattispecie penale ed in particolare l’imposta effettivamente dovuta e gli elementi attivi e passivi rilevanti ai fini della determinazione del reddito o della basi imponibili”.

Le stesse, in quanto norme che concorrono a definire gli elementi normativi della fattispecie ed, in particolare, della condotta materiale, “si traducono, sul versante penale, nella generica consapevolezza e volontarietà di tali elementi costitutivi del reato e dunque della condotta”.

E in tale contesto, “il dolo specifico di evasione, che costituisce il fiume della condotta materiale e ne presuppone la perfezione, non si identifica con la generica volontà consapevole della condotta stessa”.

Il dolo di elusione, in definitiva, non si identifica con il dolo di evasioneche esprime un disvalore ulteriore tale selezionare gli illeciti penalmente rilevanti da quelli che non lo sono”; in nessun caso, “le condotte elusive possono avere di per sé penale rilevanza estendendo il fatto tipico oltre i confini tassativamente determinati”.

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