Il tema del lavoro subordinato tra familiari rappresenta tutt’oggi una delle questioni più delicate e discusse nel diritto del lavoro italiano, in particolare all’interno delle piccole imprese e delle realtà familiari.
In tali contesti, infatti, è frequente che coniugi, figli, genitori o altri parenti collaborino in modo stabile o saltuario all’attività d’impresa, spesso senza una chiara distinzione tra prestazione gratuita e rapporto di lavoro subordinato.
La rilevanza pratica del tema è evidente: il riconoscimento o il disconoscimento della natura subordinata del rapporto incide su aspetti fondamentali come l’assicurazione obbligatoria, la contribuzione previdenziale, la retribuzione, nonché la legittimità del contratto e delle tutele correlate (malattia, maternità, TFR, ecc.).
Storicamente, il diritto del lavoro ha accolto una presunzione di gratuità nei rapporti di lavoro tra familiari, fondata sul principio latino affectionis vel benevolentiae causa, secondo cui l’apporto lavorativo all’interno del nucleo familiare sarebbe mosso da spirito di solidarietà e non da un vero e proprio intento contrattuale. Tale principio, per lungo tempo, ha determinato la difficoltà di riconoscere la subordinazione nei rapporti di lavoro familiari, specialmente in ambiti artigianali, agricoli e commerciali.
Tuttavia, l’evoluzione giurisprudenziale e normativa ha progressivamente ridimensionato questa impostazione.
L’introduzione dell’articolo 230-bis del codice civile ad opera della legge n. 151/1975 ha formalizzato la figura dell’“impresa familiare”, distinguendola dal lavoro subordinato.
Parallelamente, numerose pronunce della Corte di Cassazione hanno chiarito che la presunzione di gratuità non è assoluta, ma può essere superata attraverso la prova concreta dell’esistenza di un rapporto di subordinazione genuino e retribuito.
In questo contesto, la Fondazione studi consulenti del lavoro, con l’approfondimento del 28 ottobre 2025, fornisce un quadro chiaro e aggiornato sul tema, spiegando quando e come il lavoro tra familiari possa essere considerato lecito e riconoscibile come lavoro subordinato, alla luce della giurisprudenza più recente e delle indicazioni operative per consulenti e datori di lavoro.
Vediamo di che si tratta.
Il concetto di affectionis vel benevolentiae causa - tradotto letteralmente “per affetto o per benevolenza” - rappresenta la base storica della presunzione di gratuità nel lavoro tra familiari.
Secondo tale principio, la collaborazione tra soggetti uniti da vincoli di parentela o affinità si presume spontanea, fondata su motivazioni morali e affettive piuttosto che su un vero animus contrahendi, ossia sull’intenzione di stipulare un contratto di lavoro retribuito.
Questa impostazione trova il suo fondamento economico e sociale nell’articolo 2083 del codice civile, che disciplina la figura del piccolo imprenditore, individuando tra i soggetti tipici il coltivatore diretto, l’artigiano e il piccolo commerciante, spesso operanti con il solo aiuto dei familiari. In tali contesti, l’apporto del coniuge o dei figli è tradizionalmente considerato un contributo alla gestione familiare, più che una prestazione lavorativa autonoma o subordinata.
Il motivo della presunzione di gratuità risiede dunque nell’idea che il lavoro familiare non risponda alla logica del corrispettivo economico, ma a quella della cooperazione e della solidarietà interna al nucleo.
Ciò ha comportato, per decenni, la tendenza degli organi ispettivi e previdenziali a negare la validità dei rapporti di lavoro subordinato tra familiari, ritenendo che manchi un reale scambio sinallagmatico tra prestazione e retribuzione.
Tuttavia, questa visione si è rivelata in parte anacronistica rispetto all’evoluzione delle strutture imprenditoriali e alle esigenze di tutela dei lavoratori, richiedendo una rimodulazione interpretativa fondata su criteri oggettivi e verificabili.
La presunzione di gratuità non è una regola assoluta, ma una presunzione semplice, che quindi può essere vinta mediante la prova contraria.
In base all’elaborazione della giurisprudenza - in particolare alle sentenze Cass. 27 febbraio 2018, n. 4535 e Cass. 6 luglio 2021, n. 19144 - il familiare che rivendica l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato deve fornire una prova precisa e rigorosa di tutti gli elementi tipici della subordinazione e dell’onerosità.
Gli elementi oggettivi richiesti per dimostrare la subordinazione sono:
Tali indicatori, se dimostrati, permettono di qualificare l’attività come lavoro subordinato a tutti gli effetti, superando la presunzione di gratuità.
È importante però distinguere tra due concetti spesso forieri di dubbi:
Dunque, il lavoro subordinato tra familiari è lecito, ma deve essere autenticamente subordinato e retribuito: solo la prova di una reale soggezione al potere datoriale e di una effettiva onerosità può giustificare il riconoscimento del rapporto ai fini giuridici, previdenziali e assicurativi.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha avuto un ruolo determinante nel definire, chiarire e aggiornare l’interpretazione della presunzione di gratuità del lavoro tra familiari, individuando nel tempo i criteri oggettivi necessari per distinguere il lavoro subordinato da quello prestato per motivi affettivi o solidaristici.
Le sentenze più recenti - Cass. n. 30899/2018, Cass. n. 33759/2022 e Cass. n. 23919/2025 - rappresentano i punti di riferimento essenziali per orientare l’operato di datori di lavoro, consulenti e organi ispettivi.
Cassazione 29 novembre 2018, n. 30899
Con la sentenza n. 30899 del 29 novembre 2018, la Corte di Cassazione ha ribadito che tra soggetti legati da vincoli di parentela o affinità opera, di regola, una presunzione di gratuità della prestazione lavorativa. Tale presunzione trova la sua origine nel principio di affectionis vel benevolentiae causa, in base al quale la collaborazione familiare è normalmente resa per motivi di affetto o solidarietà, e non per ottenere una retribuzione.
La Corte, tuttavia, ha precisato che tale presunzione non è assoluta, potendo essere superata con una prova rigorosa dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. A tal fine, è necessario dimostrare la presenza di elementi oggettivi e inequivocabili che rivelino l’effettiva subordinazione del familiare al datore di lavoro.
Gli indici di subordinazione considerati rilevanti dalla Corte sono:
La Cassazione ha inoltre richiamato il principio già espresso nella sentenza n. 7024 dell’8 aprile 2015, secondo cui l’elemento distintivo del lavoro subordinato è il vincolo di soggezione personale al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro.
Altri elementi, come l’assenza di rischio economico, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione, pur non decisivi da soli, possono costituire indici rivelatori della subordinazione, soprattutto quando risultano incompatibili con la volontà delle parti di instaurare un rapporto gratuito.
Cassazione 16 novembre 2022, n. 33759
Con l’ordinanza n. 33759 del 16 novembre 2022, la Corte di Cassazione ha ulteriormente precisato i criteri per distinguere il lavoro subordinato dall’impresa familiare, disciplinata dall’art. 230-bis del codice civile.
In questa pronuncia, la Corte ha sottolineato che la valutazione della subordinazione deve basarsi su una serie di indici sintomatici comprovati da elementi istruttori, quali:
L’accertamento di tali elementi deve essere effettuato in modo critico e complessivo, poiché la natura del rapporto non può essere desunta da un singolo fattore isolato, ma dal complesso delle circostanze concrete.
La sentenza chiarisce, inoltre, che il vincolo familiare non esclude di per sé la subordinazione, qualora sia provata la presenza dei suddetti elementi. È infatti possibile che un coniuge, un figlio o un parente svolgano un’attività lavorativa effettivamente soggetta ai poteri datoriali, anche se all’interno di un contesto familiare.
Un aspetto rilevante della pronuncia è la distinzione tra:
La Corte ha quindi riconosciuto che la continuità della prestazione lavorativa e la presenza di poteri direttivi e organizzativi sono elementi dirimenti per qualificare correttamente il rapporto, anche in presenza di un legame familiare stretto.
Cassazione 26 agosto 2025, n. 23919
L’ordinanza n. 23919 del 26 agosto 2025 rappresenta uno degli interventi più recenti e significativi sul tema del lavoro subordinato tra familiari, soprattutto per le implicazioni operative in ambito agricolo e artigianale.
Nel caso esaminato, la Corte si è trovata a valutare la validità di un contratto di lavoro subordinato stipulato tra un padre titolare di un’azienda agricola e il figlio lavoratore.
La Cassazione ha affrontato due questioni principali:
In merito alla convivenza, la Corte ha stabilito che la sua assenza non comporta automaticamente il riconoscimento della subordinazione, così come la sua presenza non prova in modo assoluto la gratuità del rapporto. La convivenza, in altri termini, può rafforzare l’ipotesi di un apporto prestato affectionis causa, ma non rappresenta un elemento decisivo.
Pertanto, anche tra familiari conviventi, la subordinazione può essere riconosciuta se risultano dimostrati gli elementi essenziali del rapporto di lavoro retribuito.
Quanto al valore probatorio della busta paga, la Corte ha ribadito che essa ha valore meramente formale: non è sufficiente, da sola, a provare l’esistenza di una reale corresponsione di retribuzione. È infatti necessario dimostrare che il lavoratore abbia effettivamente percepito gli importi indicati, completando così lo scambio sinallagmatico previsto dall’art. 2094 c.c.
Infine, la Corte ha richiamato l’art. 74 del D.Lgs. 276/2003, relativo al settore agricolo, che stabilisce che le prestazioni rese da parenti e affini fino al sesto grado, in modo meramente occasionale o ricorrente di breve periodo, non costituiscono in alcun caso rapporti di lavoro subordinato o autonomo. Tale disposizione rafforza la necessità di valutare con attenzione la continuità e l’onerosità della prestazione, specialmente in ambito agricolo, dove le collaborazioni familiari sono frequenti.
Riferimenti legislativi
Il riferimento normativo principale in materia è la legge n. 151/1975, che ha introdotto l’articolo 230-bis del codice civile, disciplinando l’istituto dell’impresa familiare. Tale norma riconosce la possibilità per i familiari di collaborare stabilmente nell’impresa, partecipando agli utili e ai beni dell’azienda, ma senza configurare un vero rapporto di lavoro subordinato.
La distinzione tra impresa familiare e lavoro subordinato risiede dunque nel diverso assetto dei rapporti interni: nel primo caso prevale la collaborazione paritaria e la condivisione del rischio imprenditoriale; nel secondo, l’assoggettamento gerarchico e la retribuzione fissa.
Prassi
Sul piano amministrativo, la disciplina è stata integrata da numerose circolari ministeriali e note di prassi, che hanno fornito indicazioni operative agli ispettori e agli operatori del lavoro.
Tali interventi confermano la necessità di un approccio prudente e documentato, fondato su prove oggettive e valutazioni caso per caso, per evitare contestazioni e garantire la corretta qualificazione del rapporto lavorativo.
Nel contesto del lavoro subordinato tra familiari, la prova della genuinità del rapporto di lavoro riveste un’importanza centrale. La giurisprudenza, in particolare la Corte di Cassazione (sentenze n. 4535/2018 e n. 19144/2021), ha chiarito che, pur essendo il lavoro tra familiari lecito, la presunzione di gratuità può essere superata solo attraverso una prova precisa, concreta e rigorosa della subordinazione e dell’onerosità.
In assenza di tale dimostrazione, la prestazione è considerata resa affectionis vel benevolentiae causa, ossia per motivi di solidarietà o affetto, e quindi priva dei caratteri del lavoro subordinato.
L’analisi probatoria non è solo un esercizio teorico, ma ha conseguenze pratiche rilevanti: il mancato riconoscimento della subordinazione comporta, tra l’altro, la non validità dei contributi previdenziali eventualmente versati e la possibile contestazione ispettiva con recuperi contributivi o sanzioni.
Ecco dunque gli elementi oggettivi che consentono di provare la subordinazione e quelli che, al contrario, ne escludono la sussistenza.
L’onere della prova
In linea generale, l’onere della prova grava sul soggetto che invoca il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato, sia esso il familiare lavoratore o, in alcuni casi, il datore di lavoro che intenda dimostrare la legittimità del contratto ai fini previdenziali e assicurativi.
La prova deve riguardare non solo l’esistenza di un’attività lavorativa svolta in modo continuativo, ma anche la presenza dei requisiti essenziali del lavoro subordinato, definiti dall’articolo 2094 del codice civile, ossia l’assoggettamento del prestatore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, in cambio di una retribuzione.
Le autorità ispettive e i giudici, nel valutare la natura del rapporto, non si limitano alla forma contrattuale o alla documentazione formale (come la busta paga o il contratto scritto), ma esaminano il comportamento concreto delle parti, la continuità della prestazione e l’effettiva esistenza di un vincolo di subordinazione.
Direttive datoriali e potere di controllo
Uno degli indici più rilevanti della subordinazione è l’esercizio da parte del datore di lavoro del potere direttivo e di controllo. Ciò significa che il familiare-lavoratore deve essere tenuto a rispettare istruzioni specifiche, orari, modalità di svolgimento del lavoro e obiettivi fissati dal titolare o da un superiore gerarchico.
Questo potere può essere esercitato anche in forma implicita, ad esempio mediante la costante presenza del datore di lavoro sul luogo di lavoro, l’assegnazione di mansioni definite e il monitoraggio dei risultati.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 33759/2022, ha precisato che l’assoggettamento al potere organizzativo e disciplinare rappresenta il criterio principale per distinguere il lavoro subordinato da quello autonomo o da una collaborazione familiare gratuita.
In particolare, l’elemento direttivo è considerato decisivo anche nei rapporti tra parenti stretti, nei quali l’affettività o la familiarità potrebbero altrimenti mascherare un effettivo rapporto di dipendenza.
Corresponsione effettiva della retribuzione
La prova della onerosità della prestazione lavorativa è altrettanto indispensabile.
Il semplice rilascio di una busta paga o la predisposizione di un contratto di lavoro non costituiscono, da soli, elementi sufficienti: è necessario dimostrare che la retribuzione sia stata effettivamente corrisposta e percepita dal lavoratore.
La Cassazione n. 23919/2025 ha ribadito che la busta paga ha valore meramente formale, in quanto rappresenta un documento che può essere emesso anche per finalità diverse (ad esempio, a fini fiscali o contributivi). Ciò che assume valore probatorio è la tracciabilità del pagamento, ad esempio mediante bonifici bancari, ricevute firmate o altre prove documentali che attestino l’avvenuto scambio economico.
Solo in presenza di tali elementi si può considerare soddisfatto il requisito dell’onerosità, condizione imprescindibile per qualificare il rapporto come subordinato ai sensi dell’art. 2094 c.c.
Presenza stabile sul luogo di lavoro
Un ulteriore indice significativo è la presenza costante del lavoratore nel luogo di lavoro. La continuità della prestazione, accompagnata dall’obbligo di garantire la propria attività in determinati orari e con regolarità, rappresenta un segnale concreto di subordinazione.
La Cassazione n. 4535/2018 ha sottolineato che l’assiduità della presenza, unita al coordinamento con le direttive aziendali, consente di superare la presunzione di gratuità.
Al contrario, la prestazione saltuaria o occasionale tende a confermare l’ipotesi di un apporto familiare gratuito, tipico del lavoro affectionis causa.
La prova può essere fornita attraverso registri di presenza, turni di lavoro, testimonianze o documenti che attestino la partecipazione quotidiana o periodica alle attività aziendali.
Rispetto dell’orario e inserimento organizzativo
Il rispetto di un orario di lavoro predefinito e l’inserimento del familiare nella struttura organizzativa dell’impresa sono ulteriori elementi chiave per dimostrare la subordinazione.
Il lavoratore subordinato è infatti tenuto a rispettare gli orari imposti e a svolgere la propria attività in un contesto produttivo dove le sue mansioni sono coordinate con quelle di altri dipendenti o collaboratori.
L’inserimento organizzativo implica che il familiare non operi in modo autonomo o occasionale, ma sia parte integrante del processo produttivo e dipenda funzionalmente dal datore di lavoro. Tale inserimento è spesso verificabile attraverso organigrammi aziendali, ordini di servizio, registrazioni di turni o corrispondenza interna che dimostri la subordinazione gerarchica.
Nonostante la possibilità di provare la subordinazione, esistono alcune situazioni in cui la natura del rapporto non può essere qualificata come lavoro subordinato, poiché mancano i requisiti oggettivi richiesti dalla legge e dalla giurisprudenza.
Tra questi, i più rilevanti sono l’occasionalità della prestazione, la collaborazione saltuaria e l’assenza di retribuzione effettiva.
Occasionalità della prestazione
Quando l’attività lavorativa è svolta in modo sporadico o non continuativo, prevale l’ipotesi della prestazione resa affectionis causa. Ad esempio, nel caso in cui un familiare presti aiuto solo in alcuni periodi dell’anno, o in situazioni eccezionali (come fiere, festività o picchi stagionali), la giurisprudenza tende a escludere la natura subordinata del rapporto.
Tale impostazione trova fondamento anche nell’art. 74 del D.Lgs. 276/2003, che dispone che le prestazioni svolte da parenti o affini fino al sesto grado in modo occasionale o di breve periodo, a titolo di aiuto o mutuo aiuto, non configurano rapporti di lavoro subordinato o autonomo.
Collaborazione saltuaria o di breve periodo
Analogamente, la collaborazione familiare di breve durata non integra un rapporto di lavoro subordinato, poiché manca la continuità e la soggezione al potere organizzativo del datore di lavoro.
La Cassazione n. 20904/2020 ha precisato che la collaborazione saltuaria e non strutturata, tipica delle microimprese familiari, deve essere considerata una forma di cooperazione familiare gratuita, non soggetta agli obblighi contributivi e assicurativi.
Assenza di compenso o solo rimborso spese
Infine, l’assenza di retribuzione effettiva o la mera corresponsione di rimborsi spese conferma la natura non onerosa del rapporto. In tali casi, anche in presenza di una certa regolarità della prestazione, manca l’elemento essenziale dello scambio sinallagmatico previsto dall’art. 2094 c.c.
La giurisprudenza costante ritiene che la retribuzione debba avere carattere stabile, predeterminato e proporzionato all’attività svolta, e non possa essere sostituita da compensi simbolici o occasionali.
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