L’indennità di mobilità/disoccupazione è dovuta anche in presenza di una sentenza di reintegrazione rimasta inattuata.
In assenza di retribuzione, infatti, permane lo stato di disoccupazione involontaria del lavoratore, che legittima la prestazione previdenziale in esame.
Con la sentenza n. 23476 deposistata il 18 agosto 2025, la Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite civili, è intervenuta per dirimere un importante contrasto giurisprudenziale in materia di indennità di mobilità e stato di disoccupazione involontaria.
La questione posta all'attenzione delle Sezioni Unite concerne la possibilità, per l’INPS, di ottenere la restituzione delle somme erogate a titolo di indennità di mobilità qualora il lavoratore sia stato destinatario di una sentenza giudiziale di reintegrazione nel posto di lavoro, rimasta tuttavia ineseguita a causa del fallimento del datore.
Ebbene, per le SU, la mancata reintegrazione effettiva comporta la permanenza dello stato di disoccupazione involontaria. Pertanto, l’indennità è legittimamente percepita e non è dovuta la restituzione all’INPS. Il diritto alla prestazione previdenziale va valutato in base alla situazione concreta del lavoratore.
La pronuncia consolida l’orientamento interpretativo maggiormente aderente ai principi costituzionali (art. 38, comma 2, Costituzione) e alla ratio assistenziale delle prestazioni previdenziali.
I fatti di causa
La vicenda alla base della decisione ha avuto origine da un ricorso promosso da alcuni lavoratori, per contestare la pretesa dell’INPS di recuperare l’indennità di mobilità loro erogata per il periodo 2009-2012.
I lavoratori, inizialmente dipendenti di una società a Srl, erano stati licenziati, ma successivamente reintegrati con sentenza passata in giudicato, che aveva accertato un trasferimento d’azienda verso altra Srl. Tuttavia, anche quest’ultima società era stata dichiarata fallita, impedendo di fatto la riassunzione.
Le argomentazioni delle parti
Secondo l'INPS, la pronuncia di reintegrazione ex tunc determinava la cessazione dello stato di disoccupazione, rendendo quindi indebita l’erogazione dell’indennità. Da qui la richiesta di restituzione degli importi versati.
Per i lavoratori, invece, persisteva il loro stato di bisogno, non essendo mai avvenuta la rioccupazione effettiva, né essendo mai stata corrisposta alcuna retribuzione.
La decisione della Corte di Appello e il successivo ricorso in Cassazione
La Corte di Appello ha accolto la tesi dei lavoratori, ritenendo che, in assenza di una reintegrazione effettiva nel posto di lavoro, il lavoratore permanga in uno stato di disoccupazione involontaria, meritevole di tutela previdenziale.
L’INPS aveva quindi proposto ricorso in Cassazione, deducendo la violazione dell’art. 7, comma 12, della L. 223/1991, nonché dell’art. 45 R.D.L. 1827/1935.
La questione è stata rimessa alle Sezioni Unite a causa del contrasto giurisprudenziale registrato sulla definizione di stato di disoccupazione in caso di reintegrazione solo formale.
Secondo un primo orientamento, l’esistenza di una sentenza di reintegrazione nel posto di lavoro comporterebbe la cessazione dello stato di disoccupazione, in quanto il rapporto lavorativo sarebbe ripristinato ex tunc. In questa prospettiva, la mera declaratoria giudiziale del diritto escluderebbe la legittimità della percezione dell’indennità.
In opposizione a tale impostazione, un secondo orientamento sostiene che lo stato di disoccupazione debba essere valutato in concreto, sulla base della mancanza effettiva di retribuzione e di occupazione. In assenza di reintegrazione eseguita, permane il bisogno tutelato dall’ordinamento, rendendo legittima l’erogazione dell’indennità.
Le Sezioni Unite hanno aderito all’orientamento sostanzialistico, stabilendo che lo stato di disoccupazione involontaria sussiste ogni qualvolta il lavoratore, pur reintegrato formalmente, non sia rientrato in servizio e non percepisca retribuzione. La tutela previdenziale mira a compensare l’assenza di reddito e non può essere esclusa per un mero effetto giuridico privo di attuazione concreta.
Il fulcro motivazionale della Corte risiede nel richiamo all’art. 38, comma 2, della Costituzione, che impone di garantire al lavoratore mezzi adeguati alle sue esigenze in caso di disoccupazione involontaria. Il concetto di “disoccupazione” deve essere inteso in senso fattuale e non meramente formale, essendo il sistema degli ammortizzatori sociali ispirato a criteri di solidarietà e sostegno effettivo.
Nella sentenza n. 23476/2025, si leggi infatti che:
"ai fini della erogazione della indennità di mobilità/disoccupazione, (come anche della Naspi), è più corretto considerare la situazione de facto che, determinata dalla decisione giudiziale di reintegrazione, sia poi seguita dalla sua effettiva ottemperanza ed invece ritenere non rispondente ai principi costituzionali di solidarietà e sostegno la considerazione della situazione de iure, non potendo, quest'ultima, assicurare il concreto ripristino funzionale del rapporto di lavoro, ben potendo, il datore di lavoro, lasciare insoddisfatto l'ordine giudiziale".
Secondo la Suprema Corte, quindi, l’INPS non ha diritto alla restituzione delle somme qualora la reintegrazione non sia stata attuata.
Non è sufficiente la sola declaratoria giudiziale del rapporto lavorativo per escludere il diritto all’indennità.
Per le Sezioni Unite, difatti, la persistenza dello stato di disoccupazione, pur a seguito dell'ordine reintegratorio, "non potrà che determinare il legittimo pagamento dell'indennità in questione e l'insussistenza del diritto dell'Inps al recupero".
La sentenza n. 23476/2025 richiama, a sostegno, anche la giurisprudenza costituzionale più recente in tema di NASPI (Corte Cost. nn. 90/2024 e 194/2021).
In tali pronunce, il Giudice delle leggi ha valorizzato un’interpretazione delle norme coerente con i principi di proporzionalità, ragionevolezza e tutela effettiva del lavoratore, escludendo l’automatismo restitutorio nei casi in cui il beneficio sia stato percepito in un periodo effettivamente privo di reddito.
La Corte Costituzionale, in particolare, ha ribadito che il diritto all’indennità trova fondamento nell’art. 38, comma 2, della Costituzione e che la sua erogazione deve essere valutata con riferimento alla condizione concreta del lavoratore, in assenza di occupazione e mezzi di sostentamento.
Le Sezioni Unite civili, in conclusione, hanno rigettato il ricorso dell’INPS, ritenendo che la mancata reintegrazione effettiva dei lavoratori e la conseguente persistenza dello stato di disoccupazione involontaria giustificassero il mantenimento dell’indennità, in linea con la finalità assistenziale della misura.
La pronuncia n. n. 23476/2025 consolida un principio fondamentale nel sistema degli ammortizzatori sociali: la tutela previdenziale deve fondarsi sulla reale condizione economica del lavoratore, e non su presunzioni giuridiche prive di attuazione concreta.
| Sintesi del caso | Alcuni lavoratori, licenziati e successivamente reintegrati con sentenza passata in giudicato, non sono mai stati effettivamente riammessi in servizio a causa del fallimento del datore. L’INPS ha richiesto la restituzione dell’indennità di mobilità percepita nel periodo di mancata rioccupazione. |
| Questione dibattuta | Se, in presenza di una sentenza di reintegrazione rimasta ineseguita, il lavoratore conservi il diritto a percepire l’indennità di mobilità/disoccupazione e, conseguentemente, se l’INPS possa richiederne la restituzione. |
| Soluzione delle Sezioni Unite civili | Le Sezioni Unite hanno stabilito che la mancata reintegrazione effettiva comporta la permanenza dello stato di disoccupazione involontaria. Pertanto, l’indennità è legittimamente percepita e non è dovuta la restituzione all’INPS. Il diritto alla prestazione previdenziale va valutato in base alla situazione concreta del lavoratore. |
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