La tutela della libertà e della segretezza della corrispondenza privata impedisce di considerare giusta causa di licenziamento il contenuto delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse a persone determinate tramite WhatsApp, indipendentemente dalle modalità con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza.
E' quanto evidenziato dalla Corte di Cassazione in due recenti decisioni (nn. 5334/2025 e 5936/2025).
Con la sentenza n. 5334 del 28 febbraio 2025, la Corte di cassazione, Sezione lavoro, si è occupata di un licenziamento per giusta causa comminato a una lavoratrice per aver condiviso, durante l’orario di lavoro, un video tramite una chat privata su WhatsApp riservata ai colleghi.
Il video, registrato all'interno del punto vendita, ritraeva una cliente in modo denigratorio.
La società datrice di lavoro aveva ritenuto che tale comportamento fosse gravemente lesivo dell'immagine aziendale e della dignità della cliente, procedendo così al licenziamento immediato della dipendente.
In primo grado, la sentenza aveva dichiarato illegittimo il licenziamento.
Tuttavia, la Corte d’Appello di Venezia aveva riformato tale decisione, considerando la condotta della lavoratrice gravemente lesiva per l’immagine aziendale e quindi idonea a giustificare il licenziamento per giusta causa.
La lavoratrice aveva successivamente impugnato la decisione in Cassazione, sollevando sei motivi principali.
Tra i motivi d'impugnazione, la dipendente aveva lamentato la violazione della segretezza della corrispondenza, garantita dall’articolo 15 della Costituzione, l’utilizzo illegittimo del video come prova a fini disciplinari, in violazione dello Statuto dei Lavoratori, e l’errata attribuzione dell’onere della prova.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della lavoratrice, riconoscendo che le comunicazioni effettuate tramite WhatsApp, anche se all'interno di chat private tra colleghi, devono essere considerate rientranti nella sfera di protezione della segretezza della corrispondenza, così come previsto dall’articolo 15 della Costituzione.
Tutelata la riservatezza dei messaggi in chat private
Tale interpretazione trova fondamento nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 170 del 2023 ha equiparato la messaggistica istantanea alla tradizionale corrispondenza epistolare, garantendone pertanto la riservatezza.
La riservatezza di queste comunicazioni è garantita dalle procedure di sicurezza, come i codici di accesso personali, che impediscono a terzi non autorizzati di accedervi.
La posta elettronica e i messaggi WhatsApp soddisfano il requisito di segretezza previsto dall'art. 15 della Costituzione, in linea con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Quest'ultima, infatti, ha esteso la protezione dell'art. 8 CEDU anche ai messaggi elettronici, agli SMS e alla messaggistica istantanea, riconoscendoli come forme di corrispondenza tutelate.
Nella propria disamina, gli Ermellini hanno anche richiamato i principi enunciati con sentenza n. 21965/2018, secondo cui i messaggi scambiati in una chat privata tra colleghi, anche se contengono commenti offensivi verso la società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di licenziamento.
Essendo diretti esclusivamente ai membri del gruppo, tali messaggi devono essere considerati come corrispondenza privata e inviolabile, tutelata dalla libertà e dalla segretezza delle comunicazioni. La condotta contestata al dipendente, in tale frangente, è stata ritenuta lecita poiché rientrante nella libertà costituzionalmente garantita di comunicare riservatamente.
No all'utilizzo del video per giustificare il licenziamento
La Corte ha inoltre stabilito che l’utilizzo del video come prova per giustificare il licenziamento fosse illegittimo.
Infatti, il video era stato trasmesso al datore di lavoro da uno dei partecipanti alla chat, configurando così una violazione del diritto alla segretezza della corrispondenza. L’acquisizione di tale prova è stata ritenuta una forma di controllo a distanza non autorizzata, in contrasto con l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori, che limita severamente i controlli non preventivamente autorizzati sugli strumenti di comunicazione privati dei dipendenti.
La Corte di Cassazione ha quindi criticato la decisione della Corte d’Appello per non aver effettuato un bilanciamento adeguato tra il diritto alla riservatezza della lavoratrice e l’interesse aziendale alla tutela della propria immagine.
Secondo la Cassazione, non è possibile comprimere i diritti costituzionalmente garantiti dei lavoratori per tutelare meri interessi aziendali, salvo che non sussistano comprovate ragioni di sicurezza o di organizzazione aziendale che giustifichino tale compressione.
Onere della prova
Un ulteriore elemento censurato dalla Corte di Cassazione riguarda l’attribuzione dell’onere della prova.
La sentenza d’appello aveva attribuito alla lavoratrice l’onere di dimostrare l’assenza di responsabilità, mentre, secondo la Cassazione, spettava alla società datrice di lavoro dimostrare la legittimità del licenziamento e la violazione effettiva dei doveri contrattuali da parte della dipendente.
Alla luce di queste considerazioni, la Corte di Cassazione ha accolto i motivi alla base del ricorso della lavoratrice e ha deciso di cassare la sentenza impugnata.
La causa è stata rinviata alla Corte d’Appello, in diversa composizione, per una nuova valutazione delle conseguenze dell’invalidità del licenziamento e per la regolazione delle spese processuali.
Principio di diritto
Di seguito, il principio di diritto enunciato dalla Suprema corte:
"la garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro, presidi della dignità del lavoratore, impediscono di elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse col telefono personale a persone determinate e con modalità significative dell’intento di mantenere segrete le stesse, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza".
Sulla stessa linea anche la sentenza n. 5936 del 6 marzo 2025, nella quale la Cassazione ha ribadito che i messaggi scambiati in una chat privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso.
Nelle predette ipotesi i messaggi, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile.
Essi sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l'esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse.
Nella vicenda esaminata, è stata confermata l'illegittimità di un licenziamento comminato ad un dipendente per aver registrato, su una chat di WhatsApp denominata “Amici di lavoro” alla quale partecipavano con lui altri 13 colleghi, alcuni messaggi vocali riferiti al superiore gerarchico team leader con contenuti offensivi, denigratori, minatori e razzisti.
Nella specie, era stato ritenuto che la contestazione al lavoratore non avesse considerato che i messaggi in questione erano stati inviati ad un gruppo limitato di persone e fosse quindi da considerarsi quale comunicazione privata tutelata dall’art. 15 della Costituzione.
Cassazione n. 5334/2025 | |
Sintesi del caso | Una lavoratrice è stata licenziata per giusta causa per aver condiviso, durante l'orario di lavoro, un video su una chat privata di WhatsApp riservata ai colleghi. Il video, registrato all'interno del punto vendita, ritraeva una cliente in modo denigratorio. La società riteneva che tale comportamento fosse lesivo dell'immagine aziendale. |
Questione dibattuta | La questione principale riguardava la legittimità del licenziamento basato sul contenuto di comunicazioni private, trasmesse tramite WhatsApp, e la violazione della segretezza della corrispondenza garantita dall'art. 15 della Costituzione. Inoltre, si discuteva della legittimità dell'utilizzo del video come prova a fini disciplinari. |
Soluzione della Corte di Cassazione |
La Corte di Cassazione ha annullato il licenziamento, riconoscendo che le comunicazioni private tramite WhatsApp rientrano nella tutela della segretezza della corrispondenza garantita dall'art. 15 della Costituzione. Ha inoltre dichiarato illegittimo l'utilizzo del video come prova, poiché trasmesso violando tale segretezza.
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Cassazione n. 5936/2025 | |
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Sintesi del caso | Un dipendente è stato licenziato per aver inviato messaggi vocali offensivi, denigratori, minatori e razzisti contro un superiore gerarchico in un gruppo WhatsApp denominato "Amici di lavoro", composto da 14 partecipanti (incluso il dipendente stesso). |
Questione dibattuta | Se i messaggi scambiati in una chat privata tra colleghi possano costituire giusta causa di licenziamento, considerando il contenuto offensivo rivolto alla società datrice di lavoro e a superiori gerarchici. |
Soluzione della Corte di Cassazione | La Corte ha stabilito che i messaggi, essendo inviati in un gruppo ristretto, devono essere considerati corrispondenza privata tutelata dall'art. 15 della Costituzione. Pertanto, non possono costituire giusta causa di licenziamento poiché non erano destinati a una moltitudine indistinta di persone. |
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