Quando il datore di lavoro agisce nel rispetto delle regole di trasparenza e informazione preventiva, i controlli informatici sui dispositivi aziendali sono pienamente legittimi.
In tale contesto, le rilevate condotte di abuso degli strumenti aziendali possono integrare giusta causa di licenziamento.
Con la sentenza n. 28365 del 27 ottobre 2025, la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro – si è pronunciata su una controversia in tema di controlli informatici effettuati dal datore di lavoro sugli strumenti aziendali in dotazione dei dipendenti.
Tale controlli, nella specie, sono stati ritenuti legittimi, atteso che i lavoratori erano stati previamente informati delle modalità e delle finalità di tali verifiche.
La pronuncia riafferma inoltre che l’abuso nell’utilizzo dei sistemi aziendali e la diffusione di dati riservati - rilevati proprio a seguito delle verifiche sui pc aziendali - possono costituire giusta causa di licenziamento, in quanto comportano una lesione irreversibile del vincolo fiduciario tra datore e lavoratore.
La controversia trae origine dal licenziamento disciplinare di un dipendente di una società del settore energetico, cui veniva contestato di aver effettuato oltre 54.000 accessi abusivi al sistema gestionale aziendale e di aver trasmesso all’esterno 133 fatture di clienti appartenenti al cosiddetto “mercato tutelato”.
Le verifiche interne avevano inoltre evidenziato l’invio di numerose e-mail a indirizzi esterni all’organizzazione aziendale e l’utilizzo del computer aziendale per attività estranee ai compiti assegnati.
Il Tribunale di primo grado aveva accolto parzialmente le richieste del lavoratore, ma la Corte d’Appello di Campobasso aveva riformato tale decisione, confermando la legittimità del licenziamento.
Secondo la Corte territoriale, i controlli informatici effettuati erano conformi all’art. 4 della Legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), poiché previsti dalle policy interne e accompagnati da un’adeguata informativa ai dipendenti. Le condotte del lavoratore, reiterate e consapevoli, integravano una grave violazione dei doveri di fedeltà e diligenza.
Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione articolando diversi motivi d'impugnazione, tra cui:
La società ha resistito, sostenendo la piena legittimità del procedimento disciplinare e dei controlli informatici, effettuati su dispositivi aziendali nel rispetto delle policy interne e per finalità difensive legittime.
La Suprema Corte ha giudicato corretta la decisione d’appello, confermando che i controlli sui dispositivi aziendali sono legittimi se svolti nel rispetto delle prescrizioni di legge e delle informative interne.
Nel caso esaminato, il lavoratore era stato informato della possibilità di verifiche sugli strumenti informatici, e la raccolta dei dati era avvenuta in conformità al principio di proporzionalità e trasparenza.
Secondo la Corte, l’abuso sistematico degli accessi al sistema aziendale, protratto per mesi e finalizzato alla trasmissione di dati riservati a soggetti esterni, rappresentava una violazione particolarmente grave dei doveri contrattuali.
Tali condotte avevano compromesso definitivamente la fiducia datoriale, giustificando la risoluzione immediata del rapporto di lavoro senza preavviso.
La Cassazione, in definitiva, ha dichiarato inammissibili gran parte dei motivi, rilevando che essi tendevano a proporre una diversa ricostruzione dei fatti, non consentita in sede di legittimità.
È stato altresì ribadito che il controllo del giudice di legittimità non può estendersi al merito della valutazione di proporzionalità, riservata ai giudici di merito.
Con il rigetto del ricorso, la Corte ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese di giudizio e ha disposto l’obbligo di versamento dell’ulteriore contributo unificato previsto dall’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115/2002 (Testo Unico spese di giustizia).
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