Welfare aziendale, premi di risultato e fringe benefit si collocano, in un contesto economico e produttivo in continua evoluzione, come leve strategiche mediante le quali il datore di lavoro integra la componente monetaria della retribuzione, sostenendo il reddito e concorrendo al miglioramento della vita privata e lavorativa dei dipendenti.
La disciplina di cui all’art. 51 TUIR individua specifici beni e servizi che, se messi a disposizione dal datore di lavoro, non concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente, a condizione che siano destinati alla generalità dei lavoratori o a categorie omogenee e non si traducano, di fatto, in erogazioni ad personam di natura meramente retributiva.
La nozione di categoria non si esaurisce nelle tradizionali qualifiche di cui all’art. 2095 c.c., potendo ricomprendere gruppi di lavoratori accomunati da elementi oggettivi inerenti alla prestazione (livello di inquadramento, area aziendale, tipologia di orario, turno notturno, anzianità minima, rapporto in somministrazione, contratti di collaborazione coordinata e continuativa, componenti dell’organo amministrativo in posizione di dipendenza altrui).
Quanto alla gestione dei piani, restano fermi il divieto di monetizzazione del credito welfare (fatta salva l’eccezione del residuo derivante dalla conversione del premio di risultato, da assoggettare a imposizione ordinaria), il divieto di sostituire elementi retributivi ordinari con utilità in natura e l’inammissibilità di utilizzare il welfare come incentivo individuale legato alla performance.
Il quantum dei beni e servizi “detassati” deve, infine, mantenersi ragionevole e proporzionato rispetto alla retribuzione ordinaria, sicché un’evidente sproporzione si porrebbe in contrasto con i principi di capacità contributiva e progressività dell’imposizione fiscale.
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