Ruoli apicali solo a uomini o donne over 40? Dichiarazioni discriminatorie

Pubblicato il 10 marzo 2025

Le dichiarazioni pubbliche dei dirigenti aziendali possano costituire, di per sé, una forma di discriminazione indiretta, soprattutto quando sono idonee a dissuadere gruppi specifici dall'accesso al lavoro o alla carriera.

E' discriminatorio, in particolare, che l'amministratore della società dichiari di privilegiare, per l'assegnazione a ruoli aziendali importanti, uomini oppure donne sopra i 40 anni, prive di impegni familiari, escludendo implicitamente le donne più giovani.

Dichiarazioni discriminatorie: azienda di moda condannata al risarcimento

Con sentenza depositata il 3 febbraio 2025, il Tribunale di Busto Arsizio, Sezione Lavoro, si è occupato di un'azione di discriminazione collettiva, presentata da un’associazione impegnata nella tutela contro ogni forma di discriminazione.

L'associazione aveva avanzato ricorso, ai sensi dell'art. 28 della Decreto legislativo n. 150 del 2011, contro una nota società operante nel settore della moda, contestando alcune dichiarazioni pubbliche rilasciate dalla sua amministratrice.

Le affermazioni oggetto della controversia escludevano di fatto le donne sotto i 40 anni dall'accesso a posizioni aziendali "importanti", motivando tale scelta con ragioni legate alla maternità, al matrimonio e agli impegni familiari.

In particolare, l'amministratrice aveva dichiarato che per tali ruoli erano preferibili uomini oppure donne che avessero già superato certe fasi della vita familiare, come il matrimonio, la maternità e, possibilmente, la separazione, così da poter garantire una dedizione totale all'attività lavorativa.

Le accuse di discriminazione  

L'associazione ricorrente ha contestato tali dichiarazioni sostenendo che configurassero una discriminazione sia diretta che indiretta basata su età, genere e status familiare.

Secondo l'associazione, le frasi pronunciate dall'amministratrice implicavano una chiara esclusione delle donne più giovani dalle opportunità di crescita professionale, scoraggiando in modo indiretto molte candidate dall'avanzare la propria candidatura per posizioni di vertice.

Inoltre, le affermazioni sembravano presupporre che solo le donne senza carichi familiari potessero dedicarsi completamente al lavoro, consolidando un pregiudizio che penalizzava ulteriormente le donne con responsabilità familiari.

In risposta, la società aveva eccepito l’inammissibilità del ricorso, sostenendo che l'associazione non avesse legittimazione a rappresentare interessi collettivi in tale contesto.

Nel merito, aveva dichiarato l'infondatezza delle accuse, affermando che le dichiarazioni della propria amministratrice fossero state male interpretate e successivamente chiarite tramite comunicati stampa.

La decisione del giudice del Lavoro

Il Tribunale adito ha ritenuto fondato il ricorso, affermando, in primo luogo, che l'associazione ricorrente era legittimata ad agire in quanto perseguiva statutariamente la tutela contro discriminazioni collettive, secondo quanto previsto dal Decreto Legislativo n. 216/2003.

Le dichiarazioni pubbliche dell'amministratrice, secondo la valutazione del Tribunale, configuravano effettivamente una forma di discriminazione diretta e indiretta, in violazione dei principi costituzionali di uguaglianza (art. 3), pari opportunità sul lavoro (art. 37) e utilità sociale (art. 41) sanciti dalla Costituzione italiana.

Il giudice del lavoro ha inoltre evidenziato come le affermazioni pubbliche, data la loro ampia diffusione mediatica, fossero idonee a dissuadere le lavoratrici dall'accedere o presentare candidature per le posizioni di vertice all'interno della società, costituendo una forma di discriminazione indiretta e intersezionale.

Tale tipo di discriminazione deriva dalla combinazione di più fattori, come l'età, il genere e lo status familiare, che si sovrappongono e si rafforzano vicendevolmente, amplificando gli effetti discriminatori.

Come ricordato dalla Cassazione, le dichiarazioni del legale rappresentante configurano una discriminazione indiretta, poiché possono creare svantaggi per determinate categorie nei processi decisionali aziendali.

Le misure imposte dal Tribunale  

La sentenza ha stabilito che la società dovrà risarcire l’associazione con una somma di 5.000 euro, considerata una cifra simbolica ma dissuasiva, vista l’impossibilità di quantificare il danno subito direttamente dalle persone potenzialmente lese dalla discriminazione.

Inoltre, il Tribunale ha ordinato alla società di adottare, entro sei mesi, un piano formativo obbligatorio per tutti i dipendenti, volto a contrastare i pregiudizi basati su età, genere e carichi familiari nelle fasi di selezione del personale.

Tali corsi dovranno essere tenuti da esperti del settore e mirare a promuovere una cultura aziendale inclusiva e rispettosa dei principi di pari opportunità.

La società è stata inoltre condannata a pubblicare, a proprie spese, il dispositivo della sentenza su un quotidiano nazionale, al fine di garantire trasparenza e sensibilizzare l’opinione pubblica sulle conseguenze delle pratiche discriminatorie.

È stata prevista, altresì, anche una sanzione pecuniaria di 100 euro per ogni giorno di ritardo nell’attuazione delle misure ordinate, a garanzia della tempestività e dell’efficacia dell’intervento correttivo.

Infine, la sentenza ha disposto che la società dovrà rimborsare le spese legali sostenute dall'associazione, per un importo complessivo di 3.500 euro.

Tabella di sintesi della decisione

Sintesi del Caso Un'associazione ha presentato ricorso contro una società del settore moda, contestando dichiarazioni pubbliche della sua amministratrice che escludevano le donne sotto i 40 anni da ruoli aziendali importanti, preferendo uomini o donne sopra i 40 anni senza impegni familiari. Le dichiarazioni sono state considerate discriminatorie per età, genere e status familiare.
Questione Dibattuta La legittimità delle dichiarazioni dell'amministratrice rispetto ai principi costituzionali di uguaglianza e pari opportunità sul lavoro. In particolare, se le affermazioni configurassero una forma di discriminazione diretta e indiretta, idonea a dissuadere le donne più giovani dall'accedere a posizioni di vertice.
Soluzione del Tribunale Il Tribunale ha riconosciuto il carattere discriminatorio delle dichiarazioni, condannando la società a un risarcimento simbolico di 5.000 euro, all'adozione di un piano formativo contro le discriminazioni entro sei mesi, alla pubblicazione della sentenza su un quotidiano nazionale e al rimborso delle spese legali per 3.500 euro.
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