Sempre più spesso l’onere probatorio ricade sul contribuente. Specie per contrastare l’evasione fiscale

Pubblicato il 15 novembre 2010 La regola ordinaria che vuole a carico dell’Amministrazione finanziaria l’onere della prova in caso di confronto con il contribuente sta subendo numerose modifiche. Non sono pochi i casi in cui, infatti, il contribuente viene chiamato ad essere l’unico soggetto incaricato dell’onere probatorio. Ciò a causa non solo di alcune disposizioni di legge, ma di molti interventi della stessa Corte di Cassazione che – analizzando singole fattispecie – è arrivata a stabilire che anche in caso di presunzioni semplici, l’onere di fornire la prova può essere fatto ricadere sul contribuente.

I casi più frequenti connessi ad attività internazionali in cui l’onere della prova è stato addossato al contribuente vanno dalla cosiddetta “esterovestizione della società” - cioè la fattispecie secondo cui il Fisco considera nel territorio nazionale (salvo prova contraria), quindi sottoposte a tassazione italiana, le sedi di società e di enti non residenti che presentano alcuni specifici requisiti - alle operazioni “black list”, in cui sono le imprese residenti a dover provare che le operazioni realizzate con soggetti appunto residenti in Paesi a fiscalità privilegiata rispondono ad un effettivo interesse economico e hanno avuto concreta esecuzione.
 
Ma, oltre alle presunzioni legali che rappresentano tutte quelle eccezioni in cui vi è uno slittamento dell’incombenza dell’onere della prova a carico del contribuente, non degli uffici, esistono anche specifiche norme di legge che addossano proprio intenzionalmente al contribuente l’onere di fornire la prova, al fine della deduzione analitica di uno specifico componente negativo. A tal proposito, basti pensare a tutte quelle situazioni inerenti ad attività interne, in cui è proprio il contribuente ad essere chiamato dalla legge (ad esempio dal Tuir) a fornire prova che le spese sono sostenute con il reddito dell’anno o degli anni precedenti, con redditi esenti o assoggettati a titolo di imposta o importi esclusi dalla formazione del reddito. È il caso del cosiddetto accertamento sintetico, alla luce delle ultime modifiche apportate dalla Manovra estiva. Infatti, se in precedenza non vi erano dubbi e si pensava di essere di fronte a presunzioni legali, ora viene da una parte confermato tale principio, mentre contemporaneamente è la stessa norma che chiede obbligatoriamente al contribuente di partecipare all’accertamento e di fornire ulteriori dati e notizie, per essere poi invitato al contraddittorio prima che venga emesso l’atto impositivo. In tal modo, l’obbligo dell’ufficio di chiedere al contribuente ulteriori prove svaluta necessariamente il fatto noto stabilito dalla legge su cui si fonda la presunzione legale. Ecco, quindi, la necessità di ricorrere agli ulteriori elementi offerti a sostegno del contribuente. E' quanto accade per gli studi di settore. In alcuni recenti interventi, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla legittimità dell’accertamento basato sugli studi di settore. Nello specifico, la Corte ha ripetuto che spetta al contribuente fornire la prova contraria in caso di accertamenti basati sugli studi di settore e in presenza di gravi incongruenze dei dati da essi risultati rispetto ai ricavi dallo stesso dichiarati. Di conseguenza, si è ritenuto legittimo l’accertamento basato sugli studi di settore quando l’ufficio provi le gravi incongruenze e il contribuente, nei cui confronti si trasferisce, successivamente, l’onere probatorio, non sia in grado di fornire prove contrarie.

Altro caso in cui è il contribuente ad essere chiamato a fornire l’onere della prova è quello delle indagini finanziarie. In tali circostanze è il contribuente che deve dimostrare che ha tenuto conto delle operazioni intercorse con gli intermediari finanziaria nella determinazione del reddito o che le stesse operazioni non potevano avere rilevanza ai fini del reddito.
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