Ddl Lavoro nel segno della rigidità senza aver soppesato

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Prossimi alla definitività delle regole poste a base della Riforma del Lavoro, molto si conosce già circa gli interventi riformatori. Su taluni aspetti, tuttavia, le categorie interessate sondano le norme contenute nel Disegno di legge, per analizzarne gli effetti su datori di lavoro e lavoratori.

Non si sottrae la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, impegnata in una prima analisi tecnica effettuata lo scorso 9 aprile, giunta ai lettori nella forma di una circolare – la numero 6/2012 – incaricata di esplorare il canale innovatore che investe gli articoli 8 e 9 del testo, dedicati a riordinare le disposizioni di Legge sul lavoro a progetto e quello autonomo.

LAVORO A PROGETTO.

Dei due, l’articolo 8 del DDL aggiorna le attuali disposizioni del lavoro a progetto per giungere ad evitare che questa tipologia contrattuale sia oggetto di uso distorto. Nella relazione illustrativa al DDL, consultabile sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, è spiegato l’ambito d’intervento nel settore. In particolare:

a) la definizione più stringente del progetto: questo deve possedere i requisiti di determinatezza di cui all’articolo 1346 del Codice civile; deve essere funzionalmente collegato al risultato finale da raggiungere e non può essere identificato con l’obiettivo aziendale nel suo complesso; non può comportare lo svolgimento di compiti “meramente esecutivi o ripetitivi”;

b) l'eliminazione di qualsiasi riferimento al “programma di lavoro o fasi di esso”;

c) la limitazione della facoltà del datore del lavoro di recedere dal contratto prima della realizzazione del progetto. Il recesso può, infatti, essere esercitato solo per giusta causa od inidoneità professionale del collaboratore, che renda impossibile la realizzazione del progetto stesso.

Le attività possono essere individuate dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero, ritengono i Consulenti, sulla base di criteri di ragionevolezza.

RECESSO.

Il committente può recedere dal contratto a progetto, ricorrendo i medesimi criteri che consentono il recesso dal lavoro a termine di natura subordinata; in ogni caso, è permesso recedere prima della scadenza del termine solo in presenza di giusta causa e qualora siano emersi profili di “inidoneità professionale” del collaboratore, tali da rendere impossibile la realizzazione del progetto. L’assenza di una specifica definizione normativa di “inidoneità professionale” comporterà, avvisano i Consulenti, un aumento del contenzioso in materia. In via generale, l’inidoneità professionale si configura, nel corso della collaborazione, tale da impedire la realizzazione del progetto.

E’ rigido anche il disposto normativo sul recesso del collaboratore, che si può configurare prima della scadenza del termine con preavviso, sempre che tale facoltà sia prevista nel contratto individuale di lavoro.

Un’ulteriore novità nella versione dell’articolo 8 del DDL consiste, letteralmente, in una “presunzione relativa circa il carattere subordinato del rapporto di lavoro, qualora l’attività esercitata dal collaboratore sia analoga a quella prestata dai lavoratori dipendenti dall’impresa committente, salve le prestazioni di elevata professionalità”. Pertanto, ove l’attività esercitata dal collaboratore sia analoga all’attività svolta dal lavoratore subordinato, sulla scorta di un filone giurisprudenziale consolidato, il rapporto si presume di natura subordinata, salvo prova contraria.

Ciò nonostante, dal testo del DDL emerge, è scritto nella circolare n. 6/2012, una previsione che appare pleonastica e, nella sostanza, diversa da quanto indicato nella relazione illustrativa. La norma prevede che “Salvo prova contraria a carico del committente, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, sono considerati rapporti di lavoro subordinato sin dalla data di costituzione del rapporto, nel caso in cui l’attività del collaboratore sia svolta con modalità analoghe a quella svolta dai lavoratori dipendenti dell’impresa committente, fate salve le prestazioni di elevata professionalità che possono essere individuate dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

L’aggettivo “analoghe”, è riferito alle “modalità” di svolgimento della prestazione, non già “all’attività” esercitata dal collaboratore. Ne consegue che è del tutto evidente, anche senza la previsione in esame, che se un collaboratore svolgesse la prestazione con modalità “analoghe” a quelle di un subordinato, da sempre la Cassazione qualificherebbe questo rapporto come lavoro subordinato.

Sulle prestazioni di “elevata professionalità”, il DDL prevede che “possono” essere individuate dai contratti collettivi. I Consulenti ritengono che come per le attività meramente esecutive, questo requisito operi anche in mancanza delle previsioni dei contratti collettivi.

ATTENZIONE: l’articolo 8, comma 2 del DDL, introduce una interpretazione autentica dell’articolo 69, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003, nel senso che la mancata individuazione del progetto determina ipso facto la trasformazione del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa in rapporto di lavoro subordinato.

Il successivo comma 3 del DDL stabilisce: “Le disposizioni di cui al presente articolo trovano applicazione per i contratti di collaborazione stipulati successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”. Ma, nella circolare n. 6/2012 leggiamo che la data di entrata in vigore delle disposizioni non sembra possa riguardare la norma di interpretazione autentica di cui sopra, in virtù della finalità che essa si prefigge di ottenere. Spiegano, infatti, i Consulenti del Lavoro che sarebbe assurdo interpretare il testo di Legge in funzione della data di sottoscrizione del contratto, provocando dubbi di legittimità Costituzionale, vista la palese disparità di trattamento che si creerebbe a parità di condizioni contrattuali (articolo 3 della Costituzione).

LAVORO AUTONOMO.

Motore dell’intervento sul lavoro autonomo è la sottrazione all’utilizzo fraudolento delle “partite Iva” e combatterne l’adozione elusiva delle garanzie di legge per dissimulare rapporti connotati da subordinazione effettiva. Il DDL (articolo 9), stabilisce che vanno considerate rapporti di collaborazione coordinata e continuativa le prestazioni lavorative rese da “persona titolare di posizione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto”, a meno di prova contraria fornita dal committente, se ricorrono due tra questi presupposti:

a) che la collaborazione abbia una durata complessivamente superiore ad almeno sei mesi nell’arco dell’anno solare;

b) che il corrispettivo che deriva dalla collaborazione, pur fatturato a più soggetti riconducibili al medesimo centro d’imputazione di interessi, costituisca più del settantacinque per cento dei corrispettivi complessivamente percepiti dal collaboratore nell’arco dello stesso anno solare;

c) che il collaboratore disponga di una postazione di lavoro presso una delle sedi del committente.

Si osserva nella circolare n. 6/2012 che già l’attuale legislazione prevede che l’apporto di un titolare di partita Iva nelle forme previste dall’articolo 409, punto 3, del Codice di procedura civile, qualifica il rapporto come collaborazione coordinata e continuativa. La scelta operata dal Ministro Elsa Fornero di non fare leva sugli attuali principi giuridici, ma introdurre ulteriori condizioni che rischiano di generare una reazione incontrollata e distorta del diritto del lavoro, appare incomprensibile.

Ciò posto, l’ambito soggettivo di applicazione della norma è ogni “persona titolare di posizione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto”. Deve rientrare in questa disposizione la prestazione che si inquadra tanto nell’attività di impresa quanto in quella di lavoro autonomo. Salvo che, in via interpretativa, stante la declaratoria dell’articolo 9 (riferito al solo lavoro autonomo), si tenda ad escludere i soggetti titolari di partita Iva organizzati in forma di impresa.

Al ricorrere anche solo di due dei tre presupposti indicati, opera la presunzione del regime di parasubordinazione del rapporto. La conversione avviene automaticamente, “salvo che sia fornita la prova contraria da parte del committente”.

Questa scelta – affermano i Consulenti - conferma l’approccio alla materia che, pur tendendo al perseguimento delle violazioni delle tutele in materia di lavoro, ritiene aprioristicamente in senso negativo qualsiasi rapporto di lavoro dissimile dal “tempo pieno e indeterminato”.

Nel datore, la rigidità che il Legislatore intende porre a rimedio della sregolatezza potrebbe ingenerare timori di conversioni forzose del rapporto di lavoro e costi ingiustificati. Il che si tradurrebbe nella perdita di posti di lavoro.

Un pericolo reale, sostengono i Consulenti, dimostrato dalla apprensione che ha guidato il Legislatore nella stesura del terzo comma dell’articolo 69 bis del D.Lgs. n. 276/2003, introdotto dall’articolo 9 del DDL, che differisce l’applicazione della nuova regola per i rapporti in corso a dodici mesi dopo l’entrata in vigore della prospettata riforma.

Il comma 4 di quello stesso articolo 9 del DDL, prevede che “La disposizione di cui alla prima parte del primo periodo del comma 3 dell’articolo 61 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si interpreta nel senso che l’esclusione dal campo di applicazione del Capo I del Titolo VII del medesimo decreto riguarda le sole collaborazioni coordinate e continuative il cui contenuto concreto sia riconducibile alle attività professionali intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali. In caso contrario, l’iscrizione del collaboratore ad albi professionali non è circostanza idonea di per sé a determinare l’esclusione dal campo di applicazione del presente Capo”.

Ebbene, stabilendo quel comma 3 dell’articolo 61 del D.Lgs. n. 276/2003, l’esclusione dal campo di applicazione del lavoro a progetto per “le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali é necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali, esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo”, il comma 4 del DDL – che a tale previsione si rivolge – dispone che l’esclusione dal lavoro a progetto si realizza solo quando le collaborazioni riguardino “attività professionali intellettuali” per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione all’Albo.

Il giudizio che leggiamo nella circolare n. 6/2012 è grave: assurdità di questa disposizione, che comporta il pericolo che, qualora un professionista regolarmente iscritto all'Ordine, non svolgesse attività riservate che caratterizzano la professione o per le quali non sia previsto un regime di esclusiva, potrebbe incorrere nel rischio di conversione della sua consulenza in rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato sin dall'inizio della collaborazione, con importanti ricadute sugli aspetti previdenziali connessi alla precedente qualificazione del rapporto.

Concludendo, il presente contributo ha risposto al proposito della divulgazione del primo intervento critico fornito dalla categoria dei Consulenti del Lavoro sul DDL di Riforma del Lavoro, senza nulla voler sommare che falsasse il contenuto della circolare commentata.
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