Domanda di risoluzione del contratto e sopravvenienza del fallimento

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Domanda di risoluzione del contratto e sopravvenienza del fallimento

E’ recentemente stata affrontata dalla giurisprudenza di merito (cfr Trib. Torino, sez. VI civile, 17/5/2014, G.U. Astuni)[1] la questione concernente la sorte dell’azione di risoluzione  iniziata da uno dei contraenti prima della dichiarazione di fallimento dell’altro.

La problematica non è di poco conto alla luce del contenuto della norma applicabile, l’art. 72, quinto comma, L.Fall. [2] .

L’art. 72, comma 5, l.f., nella versione riscritta dal D. Lgs. 5/2006, fa salvi nei confronti della curatela fallimentare gli effetti dell’azione di risoluzione contrattuale che il contraente in bonis abbia iniziato prima della dichiarazione di fallimento. Aggiunge tuttavia che “se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni del capo V” della legge fallimentare”.

La disposizione presenta elementi di ambiguità, dipendenti dalla concentrazione nella stessa norma di due distinte situazioni, assai diverse tra loro, secondo che il contraente in bonis abbia agito ante fallimento per la risoluzione del contratto: 1) per far valere una pretesa restitutoria (di denaro, beni mobili e immobili) e/o risarcitoria, che per effetto dell’apertura del concorso è assoggettata alla verificazione dei crediti ex art. 52 e 93 ss. l.f.; 2) in funzione della pura e semplice liberazione dagli obblighi contrattuali.

Secondo un più recente indirizzo giurisprudenziale[3]  in quest’ultimo caso è indubbio che
l’azione di risoluzione, instaurata ante fallimento, non “derivi dal fallimento” ai sensi dell’art. 24 l.f.[4], per cui, previa riassunzione nei confronti del curatore, il giudizio non può che proseguire avanti al giudice innanzi al quale era incardinata ante fallimento e secondo il rito ordinario.

Riguardo al caso sub 1) si danno, invece, diverse letture.

Secondo la prima, la domanda che deve proporsi “secondo le disposizioni del capo V” è la sola pretesa alla restituzione o risarcimento del danno, mentre quella di risoluzione, dopo essere stata riassunta nei confronti del curatore, resterebbe anche in tal caso incardinata avanti al giudice ante fallimento.[5]

Per la seconda lettura, minoritaria in giurisprudenza[6], ma largamente prevalente in dottrina, “la domanda” di cui si occupa l’art. 72 comma 5 per prescriverne la proposizione “secondo le disposizioni del capo V” è, viceversa, proprio quella di risoluzione.

Questa interpretazione viene condivisa dalla dottrina[7] per due ordini di motivi.

Il primo profilo riguarda il nesso sostanziale esistente tra la domanda di risoluzione e quella avente a oggetto la restituzione della prestazione (bene o denaro) eseguita in base al contratto risolto o il risarcimento del danno conseguente alla risoluzione.

Tra le due domande esiste un’evidente connessione “forte” che si riconduce alle note figure della pregiudizialità-dipendenza (art. 34 c.p.c.) o dell’accessorietà (art. 31 c.p.c.).

L’ordinamento dimostra, infatti, un evidente favore per l’attuazione del simultaneus processus in presenza di una connessione qualificata ex art. 31 e 34, preoccupandosi di rimuovere i possibili ostacoli alla trattazione congiunta delle due cause, quali il diverso rito naturaliter applicabile[8]

La ratio legis è evidente, sol che si consideri che, in difetto di trattazione congiunta (per diversa competenza, rito applicabile ecc.), la causa dipendente o accessoria dovrebbe restare sospesa ex art. 295 c.p.c. fino alla definizione con sentenza passata in giudicato della causa pregiudiziale, con conseguente temporanea negazione della tutela giurisdizionale e larvato pregiudizio alla ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.).

Tra le due tesi che si contendono il campo, è evidente che  l’unica a soddisfare il valore della concentrazione processuale - e quindi a doversi preferire - è la seconda, poiché alla prima seguono come implicazioni immediate la rottura del simultaneus processus (la risoluzione non è attratta alla verifica del passivo) e l’impossibilità di accogliere l’istanza di ammissione fino alla definizione della controversia sulla pregiudiziale domanda di risoluzione.

Il secondo profilo, collegato al primo, riguarda il rispetto del c.d. concorso formale, in base al quale tutte le controversie che possono incidere nella esatta individuazione del passivo fallimentare devono essere devolute (o trasmigrare avanti) al giudice fallimentare per essere assoggettate al rito dell’ammissione al passivo, al contraddittorio con i creditori concorrenti (art. 95 l.f.) e allo specifico regime di gravami previsto dalla legge fallimentare.

La latitudine del principio del concorso formale è stata fissata, già nel vigore della previgente normativa, dalla Cassazione che ha affermato la competenza del tribunale fallimentare, sia quando la pretesa creditoria è fatta valere direttamente nel concorso, sia quando la domanda proposta costituisca la premessa ed il mezzo attraverso il quale si intende ottenere il riconoscimento dell’obbligazione vantata nello stato passivo fallimentare, trovando deroga siffatta competenza solo quando l’intenzione del creditore di perseguire il fallito solo al suo rientro in bonis e, quindi, di non avanzare richiesta di sorta nei confronti del fallimento, sia stata chiaramente ed inequivocabilmente espressa>>[9] .

 L’unica tesi rispettosa della regola del concorso è, ancora una volta, la seconda, poiché alla prima segue, come ineliminabile conseguenza, che sulla domanda pregiudiziale di risoluzione del contratto, che pure pone la premessa logica per l’accoglimento della pretesa restitutoria/risarcitoria, venga a mancare il contraddittorio tra attore e creditori.

Sul punto così si è espresso il  Tribunale di Udine[10] : “l’azione di risoluzione contrattuale ex art. 72, comma 5, l.f. può essere esperita nei confronti della curatela fallimentare avanti al tribunale ordinario ovvero proseguita avanti al medesimo, nell’ipotesi in cui sia stata iniziata prima del fallimento del convenuto, soltanto quando alla richiesta di risoluzione del contratto non si accompagni la contestuale domanda di restituzione del prezzo e di risarcimento dei danni conseguenti. Laddove invero vengano chieste contemporaneamente l’azione di risoluzione e la conseguente azione di ripetizione e condanna, entrambe le domande dovranno essere trasferite in sede fallimentare, in quanto legate da un vincolo di connessione e dipendenza tale da rendere indispensabile una loro trattazione unitaria, posto che la regola dell’unicità del concorso impone la concentrazione processuale davanti al Giudice fallimentare di tutte le controversie che possono incidere nella esatta individuazione del passivo fallimentare”.

Dopo la riforma ma in fattispecie ricadente sotto il vigore della precedente normativa, anche la S.C. [11] ha avuto modo di affermare che : “nelle azioni derivanti dal fallimento, sottoposte alla competenza funzionale del tribunale fallimentare, ai sensi dell’art. 24 l.f., perché incidenti sul patrimonio del fallito, ivi compresi gli accertamenti che siano premessa di una pretesa verso la massa, rientra anche la domanda di risoluzione del contratto ... finalizzata alla domanda di risarcimento del danno nei confronti della società fallita”.

Attribuita quindi valenza prevalente alla tesi della trasmigrazione in sede fallimentare della  domanda di risoluzione, unitamente a quella restitutoria/risarcitoria, non può non rilevarsi come l’azione di risoluzione possa proseguire al di fuori del fallimento non solo nel caso in cui la pretesa risolutoria sia finalizzata a provocare la semplice liberazione della parte dagli obblighi contrattuali, o quando la stessa sia destinata ad essere fatta valere nei confronti del fallito  tornato <<in bonis>>, ma anche in altri casi analoghi.

 Ben potrebbe, infatti, essere preordinata l’azione risolutoria  allo scioglimento del contratto in funzione dell’escussione di una garanzia di terzi, oppure della liberazione della parte in bonis  da una garanzia in conseguenza dell’altrui inadempimento.

Tutto ciò, in conclusione,  è in linea con l’orientamento della S.C.[12]  secondo cui il creditore può promuovere un’ordinaria azione di cognizione diretta ad ottenere la condanna del fallito da far valere quale titolo esecutivo nei confronti di terzi , trattandosi di rapporti estranei al fallimento.

 


[1] <<Ai sensi dell’art. 72, comma 5, L.Fall., l’azione di risoluzione contrattuale iniziata prima della dichiarazione di fallimento avente per oggetto la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve essere proposta secondo le disposizioni del capo V; di conseguenza l’azione riusolutoria può proseguire nelle sedi ordinarie solo se fatta valere in funzione della pura e semplice liberazione dagli obblighi contrattuali>> 

[2] <<L’azione di risoluzione del contratto promossa prima del fallimento nei confronti della parte inadempiente spiega I suoi effetti nei confronti del Curatore, fatta salva, nei casi previsti, l’efficacia della trascrizione della domanda; se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al capo V>> 

[3] Trib. Santa Maria Capua Vetere 6/5/2014; Trib. Udine 16/3/2012

[4] Con riguardo a fattispecie anteriore alla riforma, Cass. 29.10.2008 n. 25984

[5] Trib. Verona 17.4.2012, su Il caso.it,  Trib. Salerno 1.2.2013 in Fallimento 2013, 1391, Trib. Verona 28.10.2013 in Fallimento 2014, 440.

[6] Trib. Udine 16.3.2012 e Trib. Saluzzo 24.5.2012 entrambe su Il caso.it

[7] << Trasmigrazione dell’azione di risoluzione nella verifica del passivo>> di Edoardo Staunovo-Polacco in Il Fallimento 3/2015 352

[8] L’art. 40 cpc commi 3-5 unifica il rito applicabile “per ragioni di connessione” e i commi 6 e 7 consentono rispettivamente la proposizione cumulativa  e la riunione successiva delle due cause connesse.

[9] Cass. 5.3.1990 n. 1729; conforme ex multis Cass. 18.10.1991 n. 11038

[10] Trib. Udine 16/3/2012 cit.

[11] Cass. 2.12.2011 n. 25868

[12] Cass. 4 aprile 1998 n. 3495

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