È legittimo il controllo del lavoratore sul datore di lavoro

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È legittimo il controllo del lavoratore sul datore di lavoro

Il Jobs Act ha aperto un contraddittorio sulla necessità di revisionare la disciplina dei controlli a distanza del lavoratore, che si è concluso con la modifica dell’art. 4 della L. n. 300/70. Il contenuto della riforma ovviamente ha posto il lavoratore come soggetto passivo dell’attività di controllo e non ha affrontato l’eventualità in cui il soggetto controllante sia proprio il lavoratore.

Invero, la registrazione delle conversazioni da parte del dipendente sul luogo di lavoro, all’insaputa della controparte, ha assunto profili nuovi e inesplorati. Il fenomeno viene qualificato col termine “whistleblower”, che identifica colui che lavora in un’impresa o in un ente e che per documentare gli illeciti commessi procede anche alla registrazione e all’eventuale divulgazione dei colloqui con i suoi interlocutori.


a)    L’orientamento della Suprema Corte espresso con sentenza n. 3837 del 03/05/1997


Per vero la tematica è stata posta all’attenzione della giurisprudenza in tempi non recenti e, in quell’occasione, i Giudici di legittimità avevano negato al lavoratore la possibilità di registrare la conversazione avuta con il proprio datore di lavoro, sull’assunto che l’uso di impianti o apparecchiature di controllo sarebbe consentito solo al datore di lavoro, al fine di proteggere il patrimonio aziendale, fermo il rispetto dell’art. 4 della L. n. 300 cit.. Su tale presupposto la Corte aveva ritenuto legittima la sanzione disciplinare inflitta al lavoratore che “per finalità proprie (nella specie per precostituirsi - attraverso l’uso di registratori in ufficio - prove da far eventualmente valere contro il proprio datore di lavoro o contro i propri colleghi) abbia leso il diritto dei lavoratori a non essere sottoposti a controlli a distanza al di fuori delle ipotesi contemplate dalla legge” (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 03/05/1997, n. 3837).

La pronuncia è stata resa in un contesto storico in cui la diffusione degli strumenti tecnologici di contatto da remoto (es. social network) non era ancora cominciata e l’occhio del c.d. Grande Fratello non era ancora così trasversalmente penetrante in tutti i settori della società, ponendo gli odierni e complessi problemi di tutela della riservatezza. È comunque altrettanto vero che tale pronuncia si allontanava dal solco (anche allora) tracciato dalla S.C. sulla legittimità o meno delle registrazioni delle conversazioni effettuate tra presenti col fine di precostituirsi prove e di tutelare i propri diritti.

Infatti, sin dagli inizi del 1990 la Corte di Cassazione aveva affermato che la registrazione di una conversazione telefonica eseguita da uno degli stessi interlocutori non rientra tra le intercettazioni telefoniche con la conseguenza che “la suddetta registrazione non è sottoposta alle limitazioni e formalità proprie delle intercettazioni telefoniche e ben può essere utilizzata per avvalorare le dichiarazioni testimoniali di chi l’ha effettuata” (cfr. Cass. pen. Sez. VI, 03/06/1992; cfr. Cass. pen. Sez. I, 22/04/1992).

La massima si lascia tutt’oggi apprezzare, perché pone le basi della distinzione tra intercettazioni e registrazione.


b)    Le registrazioni e le intercettazioni: differenze


Mentre le intercettazioni vengono eseguite da un terzo e possono essere disposte dall’Autorità giudiziaria con provvedimento motivato, non occorre nessuna autorizzazione per registrare le conversazioni tra presenti, qualora l’autore della memorizzazione fonica sia uno degli interlocutori. Pertanto il discrimine corre a seconda che l’attività di memorizzazione venga effettuata da un terzo o da uno degli interlocutori.

La registrazione della conversazione da parte dell’interlocutore costituisce una forma di memorizzazione fonica di un fatto che non può essere considerato illegittimo, perché costituisce la documentazione lecita di circostanze realmente accadute tra i presenti. Sicché a giudizio della S.C. “non è illecito registrare una conversazione perché chi conversa accetta il rischio che la conversazione sia documentata mediante registrazione” (cfr. Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 24-03-2011) 13-05-2011, n. 18908 e cfr. Cass. pen. Sez. I, 22/01/2013, n. 6339).

Il discorso muta ove la captazione delle immagini o delle parole sia opera di un terzo estraneo alla conversazione. L’attività captativa eseguita da quest’ultimo all’insaputa dell’interlocutore o degli interlocutori costituisce “intercettazione” e in quanto tale è rigorosamente disciplinata dal codice di procedura penale. Si aggiunga che ove tale attività venga effettuata in ambito domiciliare, l’autore dell’intercettazione potrebbe correre il rischio di violare l’art. 615 bis c.p., che punisce l’indebita interferenza nell’altrui vita privata. Più volte, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha affermato la sussistenza del reato de quo anche quando il coniuge, in ambito domestico, abbia eseguito indebitamente la registrazione di conversazioni intrattenute dall’altro coniuge con un terzo (cfr. recentemente Cass. pen. Sez. V, 16/10/2012, n. 8762).
Quanto invece alle forme di utilizzazione della conversazione registrata da parte dell’interlocutore, quest’ultima può essere diffusa:
-    con il consenso dell’interessato;
-    ovvero essere impiegata dall’autore per scopi prettamente difensivi.
In assenza di una delle due condizioni di legittimità potrebbe configurarsi la violazione dell’art. 167 del D.lgs. n. 196/03.


c)    Regole processuali per l’utilizzo delle registrazioni


Vero è però che l’utilizzazione della registrazione per finalità difensive, in senso al giudizio civile, soggiace a delle regole, nel senso che tale atto può costituire fonte di prova, a norma dell’art. 2712 c.c., se colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta e con il tenore risultante dal nastro. In presenza di contestazione la registrazione perde la qualità di prova, per suffragare la quale diventa allora necessario, da parte dell’interessato, allegare ulteriori elementi, pur se anch’essi di carattere indiziario o presuntivo.
Tali brevi spunti sulle modalità di acquisizione e utilizzo delle registrazioni delle conversazione tra presenti consentono di ritenere che la pronuncia della Suprema Corte, resa nel lontano 1997, sulla riproduzione meccanica dei dialoghi eseguita dal lavoratore, non sia attuale, né conforme ai principi sopra descritti.


d)    Il recente indirizzo della Suprema Corte espresso con sentenza n. 27424 del 29-12-2014


Tanto ciò è vero che proprio recentemente la S.C è tornata sull’argomento (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 29-12-2014, n. 27424) affermando, in primo luogo, che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, è prova documentale utilizzabile. In secondo luogo che la registrazione fonografica di un colloquio tra persone presenti rientra nel genus delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c., quindi di prove ammissibili nel processo civile. In terzo luogo, e conseguentemente, che l’oggetto di tale prova non è catalogabile come fatto illecito e che, pertanto, ove l’attività di registrazione del dialogo venga effettuata dal lavoratore al cospetto del proprio datore di lavoro non è predicabile neppure l’ipotesi dell’infrazione disciplinare. Ne segue che il datore di lavoro per tale ipotesi non può irrogare sanzioni, né conservative (es. il richiamo verbale o scritto), né, tanto più, espulsive (licenziamento), pena l’illegittimità della contestazione disciplinare. 
Viene pertanto superato il pregresso indirizzo, poiché si ammette che anche il lavoratore, in esercizio del diritto di difesa, possa tenere condotte, in senso lato, “di controllo” nei confronti del proprio datore di lavoro. Tali condotte, puntualizza la S.C., sarebbero scriminate ai sensi dell’art. 51 c.p. e non comprometterebbero il vincolo fiduciario di cui all’art. 2016 c.c. sempre che non abbiano finalità illecite (ad esempio estorsivi o di violenza privata) e siano volte ad acquisire, contro la parte datoriale, prove a discolpa del prestatore (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 29-12-2014, n. 27424).

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