Mobbing se c’è intento persecutorio, non basta dequalificazione

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Mobbing se c’è intento persecutorio, non basta dequalificazione

Ai fini della configurabilità di una ipotesi di mobbing, l'accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime non è, di per sé, condizione sufficiente.

Mobbing, disegno persecutorio da provare

Con ordinanza n. 29767 del 29 dicembre 2020, la Corte di cassazione ha confermato la decisione con cui i giudici di appello avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico per mobbing avanzata da una dipendente nei confronti del datore di lavoro.

Secondo la Corte territoriale, l'istruttoria espletata non aveva provato la sussistenza di una condotta dolosamente preordinata alla vessazione ed emarginazione della dipendente, essendo emerse circostanze che, eventualmente, erano suscettibili di configurare una mera difficoltà di rapporti con amministratori o superiori gerarchici.

La lavoratrice si era rivolta alla Suprema corte, contestando la nozione di demansionamento che si ricavava nella decisione impugnata.

Mobbing, dequalificazione non è di per sé sufficiente

Nel giudicare tale doglianza inammissibile, la Cassazione – ordinanza n. 29767 del 29 dicembre 2020 – ha ricordato come il mobbing rientri fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate.

Secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale, per come recepito dalla giurisprudenza di legittimità, il mobbing designa un complesso fenomeno consistente “in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”.

In tale contesto, la Corte ha altresì ribadito come, ai fini della configurabilità di una ipotesi di mobbing, l'accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime non è, di per sé, condizione sufficiente.

E’ infatti necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.

E nel caso in esame, la Corte di secondo grado aveva rigettato la domanda della lavoratrice ponendo a fondamento della decisione la mancanza dell'intento persecutorio, che, come detto, costituisce elemento necessario per la sussistenza della fattispecie del mobbing.

Trasferimento sede per ristrutturazione organizzativa, mobbing escluso

Con altra recente decisione - sentenza n. 29596 del 24 dicembre 2020 – gli Ermellini hanno definitivamente rigettato la domanda avanzata da un lavoratore nei confronti della parte datoriale, volta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del trasferimento disposto da quest’ultima nonché della natura vessatoria del comportamento asseritamente dalla stessa tenuto.

La Corte d’appello aveva ritenuto che il trasferimento fosse legittimo e ciò in ordine alla sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, con esclusione della configurabilità del lamentato mobbing.

Nel confermare tale statuizione, la Corte di cassazione ha in primo luogo ricordato come, per costante giurisprudenza di legittimità, il trasferimento del lavoratore da una sede dell'azienda ad un'altra presupponga, ai sensi dell'art. 2103 c.c. nella formulazione "ratione temporis" applicabile, la sussistenza delle comprovate esigenze produttive che rappresentano l'unico elemento da valutarsi come determinante la legittimità del trasferimento.

Nel caso di specie, in assenza di qualsivoglia elemento di segno contrario, il giudice d'appello aveva correttamente verificato la sussistenza di un motivo tecnico organizzativo - produttivo la cui configurabilità aveva legittimato l'esercizio del relativo potere datoriale, in considerazione del vuoto di organico determinato dalle dimissioni rassegnate da altra dipendente che rivestiva un ruolo rilevante quale responsabile del punto vendita rimasto sguarnito.

Correttamente, era stata accertata la sussistenza del nesso di causalità fra il venir meno della attività lavorativa nella sede considerata ed il trasferimento e, quindi, l'effettività della ristrutturazione organizzativa, essendo, peraltro, le scelte aziendali insindacabili in virtù della libertà di iniziativa imprenditoriale garantita dall'art. 41 della Costituzione.

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