Niente mobbing senza intento persecutorio

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Niente mobbing senza intento persecutorio

Non è dovuto alcun risarcimento per mobbing - anche qualora siano stati riscontrati problemi psicologici in sede di perizia medica - laddove la dipendente lamenti il mancato o discontinuo riconoscimento delle ferie, se non è provato l’intento persecutorio nei suoi confronti.

E’ quanto affermato, in sintesi, dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, con sentenza n. 2920 depositata il 15 febbraio 2016, respingendo la domanda di un’impiegata presso una Casa circondariale, volta ad ottenere il risarcimento dei danni per mobbing nei confronti del Ministero della giustizia.

A fondamento della propria domanda, la ricorrente allegava alcuni fatti, tra cui: a) le modalità di godimento delle ferie, di volta in volta differite, interrotte o subordinate alla presenza in servizio del collega (anch'esso tuttavia soggetto nel tempo a vari dinieghi e differimenti); b) tre procedimenti disciplinari promossi nei suoi confronti, due dei quali, tuttavia, si erano conclusi con decisione di non luogo a procedere; c) il trasferimento per incompatibilità ambientale, che era stato anch'esso annullato dal Tribunale e che aveva peraltro colpito anche il collega, sottoposto a medesimo trattamento; c) due procedimenti penali nei confronti della stessa ricorrente, dei quali, uno pendente in Cassazione e l’altro archiviato, per riconosciuta negligenza dell’Amministrazione nell'aver valutato arbitraria un’assenza della dipendente giustificata da certificazione medica.

Mobbing

Dopo aver verificato i fatti dedotti in giudizio e prima di concludere se gli stessi potessero configurare o meno un’ipotesi di mobbing lavorativo, la Suprema Corte ha analizzato l’istituto, esponendo, in particolare, quelli che sono gli ultimi approdi giurisprudenziali in materia (per poi calarli nel caso di specie).

Natura giuridica

Il mobbing, in particolare, è una fattispecie che si fa risalire - quanto alla natura giuridica – alla responsabilità datoriale di tipo contrattuale ex art. 2087 c.c. che pone nell'esercizio di impresa, a carico del datore di lavoro, l’onere di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro.

Definizione ed orientamenti giurisprudenziali

Il concetto di mobbing tuttavia, sia in punto di fatto che di diritto, è rimasto sempre alquanto indeterminato, pur essendo stato ragionevolmente definito quale insieme di condotte vessatorie e persecutorie del datore di lavoro o comunque emergenti nell'ambito lavorativo, concretizzanti la lesione della salute psico-fisica e dell’integrità del dipendente e che postulano, ove sussistenti, un’adeguata tutela anche di tipo risarcitorio (in tal senso, Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 1307 del  26 marzo 2010).

Attesa tuttavia la indeterminatezza della nozione, la giurisprudenza, nel tempo, si è costantemente preoccupata di individuare una serie di elementi/indizi caratterizzanti il fenomeno del mobbing, dai quali poter dedurre una condotta concretamente offensiva, che si traducesse ossia in atti e comportamenti negativamente incidenti sulla reputazione del lavoratore, sui suoi rapporti umani nell'ambiente di lavoro e sul contenuto stesso della prestazione lavorativa.

Così un orientamento ormai consolidato è giunto a chiarire che per aversi mobbing è necessario che l’azione offensiva nei confronti del lavoratore sia sistematica e frequente, ovvero posta in essere con una serie prolungata di atti ed avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione (in tal senso, Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 4774/2006 e Tribunale di Roma, sentenza n. 69/2008).

Costituisce dunque mobbing – alla luce di detti chiarimenti -  la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione e persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psico – fisico (Corte di Cassazione, sentenza n. 3785 del 17 febbraio 2009).

Di converso – com'è stato più recentemente precisato – non si ravvisano gli estremi del mobbing laddove si verifichino episodi di screzi e conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria, essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche che pure sono frequenti nel mondo del lavoro (in tal senso, Consiglio di Stato, quarta sezione, sentenza n. 1609 del 19.03.2013).

Ultimi approdi giurisprudenziali

La sentenza qui in commento ha infine ricostruito la fattispecie del mobbing – ai fini della sua configurabilità o meno nel caso di specie – alla luce di altra recente pronuncia (Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 17698 del 6.08.2014 e conforme, Corte di Cassazione, sentenza n. 898 del 17 gennaio 2014), secondo cui, affinché ricorra mobbing lavorativo sono necessari ben quattro elementi:

  1. una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro, di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti sottoposti al potere direttivo dei primi;
  2. l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. il nesso eziologico tra le descritte condotte ed il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico – fisica e/o nella propria dignità;
  4. l’elemento soggettivo, ossia l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Ne consegue che il fenomeno del mobbing – precisa la Corte – per assumere rilevanza giuridica, implica l’esistenza di plurimi elementi di natura sia oggettiva che soggettiva, la cui prova compete al prestatore di lavoro. E fra questi, l’emergere di un intento di persecuzione che non solo deve assistere le singole condotte poste in essere in pregiudizio al dipendente, ma anche comprenderle in un disegno comune ed unitario, quale tratto che qualifica la peculiarità del fenomeno sociale e giustifica la tutela della vittima.

Conclusioni della Corte: non è mobbing ma carenza organizzativa  

Alla luce di quanto esposto, la Corte Suprema è giunta a concludere che nel caso qui sottopostole non vi è alcuna prova né di una volontà persecutoria, né dell’unico filo conduttore nelle varie vicende che hanno interessato la ricorrente, che univocamente deponga per una condotta di persecuzione e prevaricazione, al fine di arrecare danno e sostanzialmente liberarsi della dipendente medesima.

I fatti allegati dalla ricorrente e posti a fondamento della propria pretesa non sono dunque inquadrabili nella fattispecie del mobbing, mentre chiaramente denotano, piuttosto, una indubbia carenza organizzativa all’interno dell’Amministrazione interessata, dovuta probabilmente al succedersi di numerosi direttori nel periodo considerato.

Da ciò sarebbe dipesa la prestazione lavorativa particolarmente stressante per la dipendente e senz'altro superiore a quella che il datore di lavoro avrebbe potuto normalmente esigere. E per tale ragione sarebbero emersi i problemi psicologici rilevati in sede di consulenza tecnica d’ufficio, casualmente collegati alla qualità della condizione lavorativa.

Quadro Normativo

art. 2087 codice civile 

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