Attestatore non ammesso al passivo se inadempiente

Pubblicato il 05 maggio 2018

Un commercialista aveva impugnato il decreto con cui il Tribunale aveva rigettato la propria opposizione allo stato passivo del fallimento di una Spa, nel quale il giudice delegato aveva escluso che la prestazione di attestatore dallo stesso posta in essere rispetto ad un concordato preventivo della società, prima ammesso e poi revocato, potesse connettersi ad un credito opponibile alla massa, stante il difetto di utilità dell'opera e la sua inadeguatezza.

Secondo il giudice di merito le pretese del professionista, che aveva ricevuto un acconto sul compenso pari a 30mila euro, erano infondate e non meritevoli di tutela anche perché, tra le altre ragioni, la prestazione di attestatore si era rivelata “claudicante e destinata a condurre la proposta alla revoca o alla mancanza di omologazione a causa della scoperta di atti in frode o a causa di carenze nell'attestazione”.

Rigettato il ricorso del commercialista

Il professionista si era rivolto, quindi, alla Corte di legittimità, censurando, tra le altre doglianze, il preteso inadempimento allo stesso addebitato a titolo di colpa grave per la mancata informativa ai creditori e per il giudizio errato sulla fattibilità del piano.

Il ricorrente aveva lamentato, in primo luogo, che l'attività di attestazione richiestagli fosse stata di per sé prestazione di speciale difficoltà, ciò ai sensi della scriminante soggettiva di cui all'articolo 2236 c.c., per cui il professionista risulterebbe responsabile solo per dolo o colpa grave. Detta censura, tuttavia, è stata ritenuta inammissibile dalla Suprema corte in quanto nel motivo non erano indicati, in concreto, quali fossero "i problemi tecnici di speciale difficoltà" che era stato chiamato ad affrontare e sui quali l'incarico verteva.

Gli Ermellini hanno quindi sottolineato che, nel caso in esame, il curatore, subentrando nella posizione contrattuale del debitore, aveva non solo allegato il fatto del conferimento dell'incarico invocandone l'inadempimento, ma anche indicato specificamente i profili della diligenza non tenuta dal professionista, deducendo ed indicando le omissioni connotative dell'opposto inadempimento.

Diligenza dell’attestatore

In merito, la Cassazione (ordinanza n. 10752 del 4 maggio 2018) ha evidenziato come anche all’attestatore vada applicato, come per il più ampio genus degli imprenditori e dei professionisti intellettuali, l'articolo 1176 comma 2 del Codice civile, secondo cui "nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata" e ciò, in aggiunta rispetto a quella generica e comune di cui al primo comma della disposizione (diligenza del buon padre di famiglia).

La diligenza esigibile, ossia, presuppone il supplemento di un ulteriore elemento, che qualifica la prestazione, ovvero la perizia, “consistente nella conoscenza e attuazione delle regole e dei mezzi tecnici propri di una determinata arte o professione, da cui la collettività si attende e può esigere una nozione di attività professionale diretta espressione di un catalogo di regole attinenti in modo specifico una determinata professione e, conseguentemente, concorrenti ad integrare la "diligenza media" attinente alla singola vicenda”.

Del tutto errata era, in detto contesto, la ricostruzione dei doveri professionali assunti dall'attestatore, per come operata dal commercialista. Questi, invocando i principi redatti dal CNDEC, reclamava di non essere tenuto ad alcuna narrazione dei fatti anteriori al ricorso né a doveri di informazione sulla crisi e le sue cause, potendosi limitare alla illustrazione dei dati finali assunti dall'assetto dell'impresa, e competendo, semmai, al commissario, pubblico ufficiale, disvelare le frodi dopo averle scoperte da una ricerca a ritroso.

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