In linea con la recentissima circolare n. 5/E pubblicata il 16 maggio 2025, l’Agenzia delle Entrate è tornata a pronunciarsi sul trattamento IVA dei rimborsi per il costo del personale assunto in regime di codatorialità.
Con la risposta a interpello n. 136, diffusa il 19 maggio 2025, l’Agenzia ha approfondito il tema, soffermandosi in particolare sulla distinzione tra codatorialità e distacco di personale, alla luce delle modifiche normative applicabili ai contratti sottoscritti o rinnovati dal 1° gennaio 2025.
Una Società, organizzata come contratto di rete con soggettività giuridica, ha richiesto precisazioni in merito all’applicazione dell’IVA nel contesto della codatorialità, istituto riconosciuto dall’articolo 30, comma 4-ter, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e considerato un'alternativa al tradizionale distacco di lavoratori.
Avendo proceduto all’assunzione di personale condiviso tra le imprese aderenti alla rete e ripartito i relativi costi tra queste ultime, la Società domanda quale sia il corretto inquadramento IVA dei rimborsi sostenuti per tali oneri.
Si ricorda che, ai sensi dell’articolo 3, comma 4-ter, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito con modificazioni dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, il contratto di rete consente a più imprese di unirsi con l’obiettivo di rafforzare, sia a livello individuale che collettivo, la propria capacità di innovazione e la competitività sul mercato.
Per raggiungere tali finalità, i soggetti coinvolti si impegnano a collaborare secondo un programma comune, definito contrattualmente, che può includere attività condivise o lo scambio di competenze e servizi di tipo industriale, commerciale, tecnico o tecnologico.
Il contratto può inoltre prevedere la costituzione di un fondo patrimoniale condiviso e la designazione di un organismo comune incaricato di gestirne l’attuazione, integralmente o per specifiche fasi.
Ai fini dell'applicazione dell’istituto della codatorialità nell’ambito di una rete di imprese, il legislatore richiede che siano espressamente definite nel contratto le modalità di coinvolgimento e gestione del personale condiviso. Tale previsione, invece, non è presente nei requisiti della codatorialità “atipica”, elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Infatti, nel nostro sistema giuridico non esiste una definizione normativa esplicita del concetto di codatorialità.
Questa assenza è stata colmata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che, in diverse pronunce, ha riconosciuto la codatorialità come una situazione di fatto che può emergere all’interno dei gruppi di imprese. In tale contesto, un lavoratore può prestare la propria attività a beneficio di più datori di lavoro, indipendentemente dalla forma contrattuale formalmente adottata. Per inquadrare tale fenomeno, la Corte ha individuato alcuni criteri distintivi.
In particolare, secondo la Cassazione, la codatorialità presuppone che il lavoratore sia inserito nell’organizzazione economica complessiva del datore di lavoro formale, ma al contempo svolga la propria attività in modo tale da soddisfare l’interesse comune di più società. Queste ultime esercitano, di fatto, i poteri tipici del datore di lavoro - direzione, controllo e disciplina - assumendo così la qualifica di datori sostanziali. Tale inquadramento è stato affermato, tra l’altro, nella sentenza n. 267 del 9 gennaio 2019.
Secondo la giurisprudenza, quindi, pur in presenza di un unico contratto di lavoro, il dipendente opera contestualmente per due o più imprese, tanto che risulta impossibile distinguere quale parte della prestazione sia svolta per l’una o per l’altra. Ne consegue che tutte le imprese coinvolte devono essere considerate solidalmente responsabili per gli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro.
Questa forma è comunemente definita codatorialità “atipica”, poiché non prevista dalla legge ma riconosciuta dalla prassi giudiziaria, e si manifesta tipicamente nei contesti aziendali interconnessi, come i gruppi societari.
In contrapposizione, il legislatore ha introdotto una codatorialità “tipica”, espressamente disciplinata nel comma 4-ter dell’articolo 30 del D.lgs. 276/2003, pensata per le reti di impresa.
In questa prospettiva, tale disposizione rappresenta una norma speciale che consente l’utilizzo della codatorialità in presenza di specifici requisiti contrattuali e organizzativi, diversi da quelli individuati dalla Cassazione per i gruppi societari.
Va inoltre evidenziato che la normativa consente alle reti di imprese di ricorrere non solo alla codatorialità, ma anche all’istituto del distacco del personale.
In altre parole, per l’attuazione del programma comune di rete, le imprese aderenti possono scegliere tra due strumenti distinti - il distacco e la codatorialità - ciascuno dei quali produce implicazioni differenti sia per i lavoratori coinvolti che per i datori di lavoro.
Anche se, ai fini degli adempimenti legati alle comunicazioni obbligatorie, alla previdenza e alle assicurazioni, vengono solitamente individuate una o due imprese della rete come soggetti referenti, nell’ambito di un rapporto di lavoro in regime di codatorialità si applicano le seguenti regole:
La codatorialità, a differenza del distacco di personale, non presenta un nesso sinallagmatico tra servizio reso e compenso, elemento essenziale per l’applicazione dell’IVA secondo la Corte di Giustizia dell’UE (sentenza C-94/2019).
Nel distacco, infatti, il pagamento rappresenta il corrispettivo diretto della prestazione.
Pertanto, come chiarito dalla circolare n. 5/E del 16 maggio 2025, tali rimborsi sono da intendersi come movimentazioni finanziarie escluse dal campo IVA, ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. a), del DPR 633/1972.
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